OMAGGIO
A TIM BURTON
UN BOSCH
CONTEMPORANEO

Fino al 7 Aprile 2024 non mancate, al Museo Nazionale del Cinema di Torino, "Il mondo di Tim Burton", una mostra-omaggio ideata e co-curata da Jenny He, film curator del MoMa, in collaborazione con Tim Burton medesimo, e adattata insieme al Direttore del Museo Nazionale del Cinema, Domenico De Gaetano.

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Se si vuole affrontare la mostra con la dovuta attenzione, consiglio di farlo con cognizione di causa. Atteggiamento che, per natura, non mi appartiene ma che, proprio per questo, per correttezza, mi sento di consigliare. Quindi partirò alla lontana.


(La rampa e l'affluenza)


Tim Burton nasce a Burbank in California, non lontano dai grandi Studios come la Columbia e la Warner Bros. Cresce nutrito “a pane e cinema“. Ha pochi amici, ma non se ne cruccia, almeno così dice. E visto che anche i genitori gli stanno stretti, a dodici anni trasloca dalla nonna e a sedici va a vivere da solo. Sublima la solitudine rifugiandosi nel suo mondo interiore - che sospetto fosse già super affollato di strani compagnucci, quelli che troveremo nei suoi disegni- e nei film, inclusi quei “corti” che si diverte a creare con la sua 8mm.

Adora quelli di Frankenstein e Godzilla e ovviamente gli horror: a dieci anni è già un fan del regista Roger Corman, famoso per la trasposizione cinematografica dei racconti di Edgar Alan Poe. Gli piacciono le emozioni forti. A scuola non è un genio, ma ha un talento naturale per disegnare e dipingere, cosa che gli fa vincere, a 18 anni, una borsa di studio della Disney, con la quale inizia a frequentare un corso di Animazione alla CalArts.


(Il banner)


Due suoi corti scolastici gli valgono l’assunzione, a soli diciannove anni, alla Walt Disney Production. A venti realizza il suo primo corto, "The Fox and The Hound" (Red and Toby, Nemiciamici), sdolcinata storia dell’amicizia tra un cagnolino e una volpe, sicuramente non nelle sue corde. A ventiquattro fa il suo primo cortometraggio ufficiale: "Vincent", ispirato a "Il Corvo" di Poe. Sei minuti scarsi in bianco e nero, montati in stop motion, (scatto dopo scatto), tecnica che aveva coltivato fin da bambino e che riproporrà, spesso e volentieri, anche nella maturità, ne "The Corpse Bride" (La Sposa Fantasma) e in "Nightmare before Christmas". La voce narrante di Vincent è quella del suo omonimo e icona dell’horror, Vincent Price.


(L'iconografia)


E dire che la Disney non apprezza il genere; ma Burton, vinti i suoi primi premi al Chicago Film Festival, non si fermerà più. Letteralmente: basta leggere l’elenco delle sue opere, nella lunga monografia all’entrata della mostra. E basta girare intorno a quel nero blocco centrale che si erge sopra una spirale rossa, suo Leitmotiv grafico, intorno all’ascensore che porta alla balconata esterna della Mole Antonelliana. Ci accompagna, ripetitiva e ipnotica, una musica spettrale, in un loop che c’immerge emozionalmente dentro la mente dell’artista, con spezzoni di film e grafiche che si susseguono sui due grandi schermi in stereo, sovrastanti la sala al pianterreno.


(Animaletti spettrali)


Inutile girarci intorno. Tim Burton è strano forte. Basta guardarlo. Quei capelli riccioluti allo stato brado, quasi avesse ricevuto una scarica elettrica. Quel sorriso a tutti denti, da Stregatto, lo stesso che ritroviamo in molti suoi disegni. Quegli occhi spiritati, nonostante la palpebra pesante. Difficile pensarlo con quella bianca bellezza burrosa di Monica Bellucci. Anche se, oggi come oggi, mi sembra che la signora, forse contagiata, si vesta sempre di più in stile Morticia Adams, seppur molto meno esangue.

Burton lo vedevo meglio accompagnarsi con quell’eccentrica creatura che è Helena Bonham Carter, una delle attrici più eclettiche e considerate del cinema inglese, ma anche lei stranina a par suo: con quella sicurezza da figlia di ricco banchiere, libera di poter fare, dire e soprattutto di vestirsi come le piace e le pare, con improponibili stratificazioni da straccivendola di gran classe. Erano fatti per incontrarsi, almeno così mi è parso alla luce di certi disegni realizzati in tempi non sospetti, quando ancora non si conoscevano, quando ancora li divideva un oceano. Deve averla riconosciuta dai suoi sogni. Non mi stupisce che sia stata la sua musa. Insieme hanno fatto sette film. Non è chiaro se si siano incontrati prima o sul set de "Il Pianeta delle Scimmie", sebbene lei fosse irriconoscibile sotto il trucco da scimpanzé.


(Amichevoli pesciolini)


Subito dopo le aveva assegnato un doppio ruolo di strega e fidanzata dell’onirico e poetico "Big Fish", che per inciso è uno dei miei film preferiti e, a seguire, sempre in ordine di apparizione, ne "La Fabbrica del Cioccolato", in "Sweeney Todd", fino ad "Alice in Wonderland" dove è perfetta come Regina Rossa, per arrivare a "Dark Shadows", ultimo lungometraggio girato insieme, dove le fa fare la parte di una psichiatra alcolizzata e squilibrata. Guarda caso. Le reciproche biografie sembrano sincronizzate sull’evitare di parlare di quella loro relazione durata, a spanne, una dozzina d’anni.

Helena e Johnny Deep (8 film) attore ricorrente, caricaturale e versatile, uno che, stando alle cronache mondane, in quanto a stranezza è secondo a pochi. Ma Burton ama circondarsi di altri, meno controversi, fedelissimi: Wynona Rider, Michael Keaton, Christina Ricci e un altisonante parterre di attori e collaboratori, come il ricorrente compositore Danny Elfman e l’animatore Ricks Heinrichs, quest’ultimo nella quasi totalità delle sue pellicole.


(Muliebri ossessioni)


Che Tim Burton sia un genio del lungometraggio non può sfuggire nemmeno ai più distratti. Il Leone D’Oro alla Carriera datogli a Venezia nel 2007 se lo è meritato tutto: quattro miliardi di dollari è quanto hanno incassato i suoi i film al botteghino. Nel 1988, a soli trent’anni – previo il suo "Pee-Wee‘s Big Adventures", voluto dal controverso Paul Reubens, attore in odore di atti osceni, creatore del famosissimo personaggio Pee Wee Herman Show - esce "Beetlejuice". E ancora se ne parla. Anzi, è in arrivo il sequel, "Beetlejuice 2" - uscita prevista per Ottobre 2024 - con Wynona Rider e la sua giovane e più inquietante alter ego, Jenna Ortega, la Mercoledì di Mercoledì.

Dopodiché la svolta. Il primo "Batman" è dell’anno seguente, l’altro seguirà 3 anni dopo, due Cavalieri Oscuri che più dark non si poteva; tra i miei preferiti l’esilarante "Mars Attack", la biografia camp di Ed Wood, persino un tenerissimo "Dumbo", per non parlare dell’ultimo successo planetario per Netflix, la suddetta serie "Wednesday", spin off della Famiglia Adams, diventata subito un cult virale… Qui mi fermo per non essere troppo didascalica. Film diversi solo all’apparenza, ma sui loro comuni denominatori torneremo. Anticipo che sono iconografici. Anticipo che sono 'graphic'. C’è chi ha definito il suo stile “burtoniano”, facendolo diventare un genere. Tuttavia, a mio avviso, irripetibile. Solo se sei Tim Burton puoi fare Tim Burton. Burton è punk, è kitsch, è horror, è gotico, è dissacrante, è tenero, è divertente. Tim non è mai cresciuto, dentro è ancora quel ragazzino “disfunzionale” che si trovava più a suo agio con il suo mondo fantastico, dove i morti e i “mostri” sono molto più simpatici, vivi e divertenti, che i banali, noiosi compagnucci, nella vita reale.


(Prima di Beetlejuice)


Che Burton possa apparire perciò un pochino disturbato, non può sorprendere. Però che fosse un genio a tutto tondo di questa portata, onestamente non lo sapevo. Onore al merito degli organizzatori della mostra e del regista per aver dato accesso a quella che, sospetto, per quanto vasta, potrebbe essere la punta dell’iceberg della sua creatività. E del suo inconscio. Anche se, vista la capacità di Burton di esternarlo con ogni mezzo, forse non è più il caso di definirlo tale. Chissà se è mai andato dall’analista. Penso di no. A portare le sue oniriche visioni in superficie ci pensa da solo; gli bastano una penna, dei pastelli colorati e una qualsiasi superficie cartacea, fogli A4, piccoli bloc notes, specialmente tovagliolini da bar.


(Mars attacck in divenire)


L’anteprima di quel ben di Dio c’era stata al MoMa, a New York, nel novembre del 2009. In seguito le opere hanno girato diversi Paesi prima di approdare qui a Torino, ma mai, ne sono certa, con la scenografica forza dell’allestimento al Museo del Cinema della Mole Antonelliana che, e non lo dico per campanilismo, è ottimale. Vero che a volte è facile perdere il filo conduttore di quelle 9 sezioni tematiche; i neo allestimenti dedicati si confondono con quelli permanenti, ed è facile farsi distrarre dalla curiosità per imbattersi in "Cabiria", in "Metropolis", o in spezzoni di film d’autore, ma basta fare un po' di attenzione e seguire la rampa che porta ai livelli superiori e alla sequenza fatta di 500 opere d'arte originali, dagli esordi fino ai progetti più recenti, passando per schizzi, dipinti, disegni, fotografie, concept art, storyboard, costumi, opere in movimento, maquette, pupazzi e installazioni scultoree. Tanta roba. Molta realizzata quando aveva solo trent’anni. A me alcuni disegni hanno ricordato la complessità delle opere di Hieronymous Bosch, altri per colori e impatto grafico mi hanno fatto pensare a Mirò.


(Appunti)


Opere che rivelano le influenze che l’ hanno guidato, che richiamano il lavoro di fumettisti e illustratori classici come Edward Gorey, Charles Addams, Don Martin e Theodore Geisel; nomi che a molti, come a me peraltro, non diranno molto, ma che, agli intenditori del genere, daranno un’essenziale chiave di lettura. Immagini disegnate di getto, con tratto frenetico eppure senza tralasciare un dettaglio, dalle quali attingerà negli anni, per realizzare scene e personaggi a venire: la sua ossessione con le spirali, che ritroviamo persino sul pavimento, che mi hanno fatto venire in mente quelle usate da Alfred Hitchcock in "Vertigo" (La Donna che visse due volte) e che ci riportano all’incontro con l’inconscio; poi quelle bocche spalancate dai denti appuntiti; poi l’infinità ossessiva di quei volti spettrali con le occhiaie cerchiate di nero che vedremo, da subito, in "Beetlejuice" e quegli stessi grandi occhi sbarrati che forse lo spingeranno a dirigere "Big Eyes"; poi la miriade di pesci affamati e voraci, piccoli feroci piranha che la vendicativa Mercoledì butterà in piscina per rivalersi su una squadra di maschioni-fustoni; poi le donne dipinte di blu , che assieme gli alieni dai lunghi tentacoli abbiamo visto in "Mars Attack" o i gemelli ciccioni con la maglietta a righe di "Alice in Wonderland"…


(Lo studio itinerante)


Voi fateci caso, era tutto già scritto, già disegnato, già sognato. Eppure l’allestimento che dovrebbe rappresentare il suo studio - un piccolo angolo che sembra Burton si ritagli anche se in trasferta - con una scrivania genere “direttore del personale“, davanti a un pannello di sughero con appesi estemporanei appunti, disegni e impressioni, non mi trasmette nessuna emozione. Immaginavo qualcosa di più caotico, disordinato, accatastato. Eppure Burton si è congratulato. Se lo dice lui. Si vede che allora è veramente così: un ben organizzato archivista nato. Se vogliamo negli anni non ha buttato via nemmeno un tovagliolino. Anzi li ha rilegati in un libro: "Things you think about in a bar". Cose che ti vengono a mente in un bar. Non a tutti, mi verrebbe da dire.


(Il logo con la Mole)


Conclusione: una mostra da non mancare. Forse le darei un RATED PG 14, come si direbbe negli Usa, ma magari sono solo troppo protettiva . Dopodiché a me rimane un imperativo: quello di andare a rivedere tutti i suoi film. E se abitate a Torino e dintorni, sarà possibile vedere la retrospettiva completa delle sue opere, nell’adiacente sala del Cinema Massimo, tra novembre e febbraio 2024.

P.S. vorrei aggiungere un piccolo plauso di carattere grafico: il logo che include la Mole. Molto efficace.

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