Un pezzo di Olimpo trapiantato a Kefalonia. Questo rappresenta il monte Enos per i cefaloniesi. Non solo la montagna più alta dell’isola, con le sue vette che superano i 1600 metri, ma un luogo dove dimorano divinità e un’infinità di storie. Per tutta la durata del mio viaggio sull’isola questo massiccio di roccia calcarea mi ha sempre guardato a vista. Che mi trovassi su spiagge bellissime o nell’entroterra più selvaggio, Enos era lì. La sua sagoma perfetta, il verde calibrato con prudenza lungo i versanti, e soprattutto quella carica magnetica che rende Kefalonia impenetrabile e affascinante allo stesso tempo.

Raggiungere il monte è possibile seguendo due strade. Dall’interno dell’isola, seguendo la statale che parte da Argostoli, oppure assecondando il profilo impeccabile della litoranea che da Skala, da dove sono partito, risale la costa orientale di Kefalonia in direzione del porto di Poros. Il mare è una presenza costante mentre la strada decolla sulle ali di curve spigolose e incerte. Il mare non è solo il colore abbagliante che si veste di turchese e azzurro ma è soprattutto garanzia necessaria per non perdere l’orientamento. L’asfalto, infatti, che è pulito fino al discreto porto di Poros diventa man mano accidentato e usurato. Buche enormi e l’assenza pressoché totale di guardrail rendono l’ascesa al monte complicata. Un dedalo di curve e soprattutto corone di pietrisco ammucchiate ai bordi della strada.

Il paesaggio, via via che l’altitudine s’accentua, si trasforma. Spariscono arbusti, cipressi e ogni altra traccia di presenza mediterranea. Tutto diventa più tagliente, brullo, essenziale. Un paesaggio lunare scosso da un’aria frizzantina che contribuisce a far crollare il termometro di una decina di gradi. Non c’è anima viva mentre affronto le rampe dell’Enos. Di tanto in tanto un minivan con i vetri fumé. Poi null’altro. La cima più alta della montagna è segnata in modo inconfondibile. Tre enormi parabole, alla stregua di orecchie divine aperte sulla valle sottostante, piazzate in mezzo a una jungla di ripetitori.


Quando ci arrivo mi sembra un miracolo. Mi trovo a 1666 metri sopra il livello del mare. Sotto i miei piedi il mare di Kefalonia è un souvenir. La natura rigogliosa ed eterna rimpicciolisce fino a diventare un giardino placido e tranquillo. Parcheggio l’auto in un ampio spiazzo. Una sbarra vieta l’accesso al parco naturalistico dell’Enos. L’odore degli abeti conquista i miei polmoni. Forte, seducente, incredibile. Proprio da questi alberi, mi hanno spiegato in questi giorni, si ricava un miele straordinario. Il miele di Vlakata frutto dell’unione dell’abete che cresce su queste vette e il timo. Miele profumato, un paesaggio eterno, e la sensazione di sentirsi minuscoli. Soltanto adesso capisco perché gli isolani trattano l’Enos come il loro Olimpo. Qui, e qui soltanto, potevano dimorare le divinità protettrici dell’isola.

Mi rimetto in macchina con la voglia di incontrare una di queste divinità. Ridiscendo il monte e la discesa si rivela più complicata della salita. La strada in pratica non c’è. Esiste solo uno sterrato mal conciato, di indicazioni nemmeno a parlarne. Incrocio un pastore col suo gregge. Un’immagine passata indenne attraverso i millenni. Il primo cartello che trovo segnala la mia prossima meta. L’altopiano di Omalon, ai piedi dell’Enos. È qui infatti che si trova il cuore più sacro dell’isola. Il monastero San Gerasimo. È il più grande e importante di Kefalonia ed è dedicato al santo protettore dell’isola. Ci si arriva attraversando i villaggi di Fragata e Valsamata. Un lungo viale alberato, protetto da un’ombra rigenerante e confortante, quasi anticamera di un vero e proprio eremo. Il vento è fresco e l’aria tutt’intorno profuma degli abeti dell’Enos e di incenso. Mi metto in fila per accedere al monastero. Le visite partono dalle quattro del pomeriggio. Attendo assieme ad altri turisti sotto l’imponente arcata del campanile. Poi, dai riflessi della luce diafana, appare una suora. Interamente vestita di nero.

Non dice una parola. Ha in mano un mazzo di chiavi. Apre la cancellata arrugginita e ci fa entrare. Sotto un loggiato intravedo delle vesti scure. Sembrano grembiuli. La suora si fa capire a gesti. Li dobbiamo indossare per entrare. In effetti nessuno di noi è vestito in modo consono. Una volta dentro i miei occhi sono letteralmente rapiti. Gli affreschi dorati, le aureole sgargianti dei santi, gli stucchi, gli ornamenti. Uno scrigno regale costruito intorno a san Gerasimo, eremita venuto a dimorare qui alla metà del ‘500. D’istinto mi viene da segnarmi. Una ragazza ortodossa che mi è accanto mi guarda stranita. Si avvicina all’altare maggiore, appoggia la fronte all’immagine del santo, e si fa il segno della croce alla sua maniera. Ovvero con la mano sinistra. Porta un veletto sulla testa e questa immagine mi ricorda il costume delle nostre nonne che non entravano in chiesa senza prima indossare un copricapo. Lancio lo sguardo all’insù e resto a contemplare l’affresco stupendo della dormizione della Vergine Maria. Prima di uscire rifaccio il corridoio d’entrata. Una selva di candele accese e fissate su un terreno di riso. Mi avvicino. La luce fioca è una carezza sul viso. Lascio un’offerta e prendo anch’io una candela. Un gesto semplice, universale. Per un attimo spariscono chilometri e qualsiasi altra distanza. Senza accorgermene sono diventato anch’io parte di questa comunità. Una sensazione che rinfranca l’anima dandole un suo preciso posto nel mondo.
(6 - fine)