Il diritto al cibo è riconosciuto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 ed è iscritto nel Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966. E il diritto a mangiare bene? È anch’esso un diritto umano? Secondo Mark Bittman si. Ed è pronto a dimostrare come garantirlo a tutti aprendo ristoranti di qualità e a prezzi variabili secondo il reddito dei clienti.
Il progetto di Bittman, lanciato alla bella età di 73 anni, è di creare un ristorante dal nome modesto di “community kitchen,” basato su quattro principi: prodotti di alta qualità, cucina di livello alto, stipendi sindacali per camerieri e cuochi, e prezzi adeguati alle tasche dei clienti. L’obiettivo sarebbe difficile da raggiungere in qualsiasi paese; a New York, specificamente nel Bronx, dove Bittman aprirà nel 2025 il suo primo ristorante, quasi impossibile. La soluzione è rassegnarsi a non far soldi. Infatti la “community kitchen” di Bittman sarà finanziata a fondo perduto da donatori filantropici per almeno due decenni.
La politica del cibo è una vecchia passione per Bittman. Per me che uso condimenti e salse il minimo necessario e non amo i ristoranti, Bittman è un idolo da tempo, da quando scriveva la rubrica di critica culinaria “The Minimalist” sul New York Times e sosteneva che cucinare a casa è sempre meglio che mangiar fuori. La mia ammirazione per lui è cresciuta in modo spropositato quando ho letto che concorda pienamente con lo scrittore Calvin Trillin (https://www.bittmanproject.com/p/mark-bittman-calvin-trillin-tofu-zucchini ) sul fatto che è arrivato il momento di servire la carbonara al posto del tradizionale tacchino alla cena di Thanksgiving. Chi non ha mai celebrato un solo Thanksgiving non può capire la condanna del tacchino, animale maestoso e immangiabile che non viene mai finito nella cena festiva perché i commensali si abbuffano del ripieno ma assaggiano solamente il volatile, i cui avanzi vengono poi riproposti ad nauseam nei giorni successivi.
La nuova impresa di Bittman è rivoluzionaria, direi socialista. Come definire altrimenti il piano di fornire buon cibo a ciascuno secondo il proprio bisogno, facendosi pagare da ciascuno secondo le proprie possibilità? Mark Bittman non cita Marx quando spiega il progetto agli investitori, anche se punta esplicitamente alla giustizia sociale quando dice che i suoi lavoratori non saranno mai pagati poco e tanto meno in nero. Certamente l’idea è di sinistra, e The Guardian ne ha preso nota. (https://www.theguardian.com/environment/2023/aug/02/mark-bittman-community-kitchen-restaurants )
Bittman ha una sua filosofia, quella di Mark, il Marksismo. Per vendere ai ricchi l’idea di fare mangiare i meno ricchi alla loro stessa tavola per un prezzo molto minore, cerca di convincerli che è nel loro interesse. Meglio mangiano i poveri e le minoranze, meno si diffondono l’obesità e il diabete, che gonfiano la spesa sanitaria e quindi anche le tasse. Questo Marksismo è una filosofia tipicamente americana, basata sull’interesse personale “correttamente inteso” identificato da Alexis de Tocqueville duecento anni fa in Democrazia in America: un interesse individuale che si realizza se anche gli interessi degli altri sono presi in considerazione. Visto da un’altra angolazione: il bene comune non deve mai essere perseguito a scapito dell’individualismo.
Ma se scegliere buoni fornitori, magari a kilometri zero, è possibile, come è possibile anche cucinare bene e, seppure con difficoltà, pagare salari adeguati, non è lo stesso per la classificazione dei clienti secondo fasce di reddito. Non è che si può chiedere ad ogni cliente di turno la propria dichiarazione delle tasse prima del conto. Come ha spiegato qualche giorno fa in radio, (https://www.wnyc.org/story/mark-bittmans-plan-disrupt-how-we-eat/) Bittman sta pensando ad un’ applicazione che possa risolvere questo problema apparentemente non risolubile. Per esempio, una volta identificati come “ricchi,” “classe media,” “poveri,” agli iscritti all’applicazione sarà servito il conto che è loro accessibile.
Bisogna ammettere che il progetto, seppure di nicchia, è straordinario. Rivoluziona l’idea che i ristoranti possano essere in se stessi indicatori di status, come lo sono stati dal momento della loro creazione subito dopo la rivoluzione francese. Come impariamo dal bel libro della storica Anka Muhlstein, Garçon, un cent d’huîtres, Balzac et la Table (Odile Jacob, 2010), Balzac parla di circa quaranta ristoranti nella sua Commedia Umana, dai più prestigiosi ai più modesti, di quello che servono e di quanto costano. Sono tutte informazioni che determinano la classe e lo stile dei loro clienti. La “community kitchen” cancellerebbe proprio queste distinzioni.