IL DESTINO
CHE TI SFIORA
BOLOGNA E
I MIEI 20 ANNI

Quarantatrè anni fa, il 2 agosto 1980 alle 10.25 del mattino, una bomba esplose nella sala d’attesa di seconda classe della stazione di Bologna, uccidendo 85 persone e ferendone più di 200. La morte non fece distinzioni - si prese molti bambini - né guardò i passaporti: persero la vita 76 italiani e tre tedeschi (un'intera famiglia), due fidanzati inglesi, una francese, una svizzera, una spagnola, un giapponese. Secondo la magistratura, gli esecutori sono stati cinque terroristi neofascisti. I più noti tra gli esecutori sono Giuseppe Valerio Fioravanti, ex baby attore oggi 65enne, e sua moglie Francesca Mambro, 64 anni; hanno sempre negato di essere responsabili di quella carneficina, pur avendo ammesso molti altri omicidi politici. Condannati a vari ergastoli, oggi sono definitivamente liberi (sebbene non si siano mai pentiti), grazie ai benefici concessi a tutti gli ergastolani che abbiano tenuto "un comportamento tale da farne ritenere sicuro il ravvedimento".

I mandanti? Per i magistrati, sono stati il capo della P2 Licio Gelli (1919-2015), il suo braccio destro Umberto Ortolani (1913-2002), Federico Umberto D’Amato (1919-1996), capo dell’ufficio Affari riservati del Ministero dell’Interno, e il piduista Mario Tedeschi (1924-1993), senatore del MSI, partito erede di quello fascista, il PNF. Fin qui la cronaca asciutta di una delle più grandi tragedie dell’Italia repubblicana.



Poi c’è la mia storia, che ha intersecato indirettamente quella delle 85 vittime e dei loro carnefici. Potrà sembrare una piccola storia banale, la mia. Eppure è stata quella di tanti ventenni come me. Eravamo bambini nel 1968, così del Sessantottismo abbiamo vissuto solo i contraccolpi; però abbiamo vissuto i lunghi anni del piombo e delle stragi, tra fine anni ’60 e inizio anni ’80, costellati dagli assassinii commessi da terroristi di estrema destra ed estrema sinistra. Difficile fornire un numero preciso, tuttavia, in base ai dati forniti dall’Associazione italiana vittime del terrorismo, ci sono stati 428 morti e oltre 2000 feriti. Fatto sta che noi ventenni di allora abbiamo fatto parte di una generazione particolare; tutti ma soprattutto noi di sinistra. Eravamo sballottati non solo tra adolescenza e prima giovinezza; anche tra impegno politico (nel 1980 a Pavia ero segretario del Circolo universitario della Fgci “Benedetto Petrone”, intitolato al 18enne ucciso a Bari nel 1977 da militanti del MSI) ed emozioni non mature, tra studio e riunioni immerse nel fumo, tra miti eroici ed eroina, tra amori in stile Porci con le ali e cronache quotidiane di “ordinario terrorismo”, cui cercavamo di contrapporci da sinistra (purtroppo persino qualche conoscente ne venne affascinato e risucchiato).

Si doveva conciliare l'esuberanza con la temperanza, la tentazione di distruggere con la consapevolezza di dover costruire. Alcuni, non pochi, non ce l'hanno fatta; molti ci sono riusciti. Siccome nell’anno della strage bolognese avevo 22 anni, anche la sua eco si ripercosse sulla mia vita; anzi, sulla concezione della vita. Le stragi per noi non erano una novità. Erano state una costante a partire dal 1969: di quest’ultimo anno ricordo nitidamente le immagini televisive in bianco e nero della prima bomba fascista, quella di piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre (morirono 17 persone). Avevo 11 anni, quel giorno sul televisore della mia casa alla Spezia si materializzarono le prime riprese fatte all'interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura; all’inizio credevo che fosse un film, poi mi venne in mente che in quella città faceva l’università mia sorella Maurizia. Tra la strage di Milano e quella di Bologna ce ne furono altre 7, con matrici analoghe e ulteriori 35 morti.

Torniamo a quel 2 agosto del 1980. Per caso, la sera del giorno prima, l’1, non ero salito sul treno notturno che da Lecce mi avrebbe portato Milano, con tappa nel capoluogo emiliano. Stava finendo la mia prima vacanza a sud di Roma. Ero con Elisa, la fidanzata di allora; l'arrivo inatteso (non c’erano i telefonini) nel campeggio Idrusa di Otranto di due amici, Tiziana e Ali, ci aveva fatto rinviare il ritorno. Se fossimo partiti, la mattina dopo ci saremmo trovati in stazione a Bologna, per prendere una coincidenza, più o meno nell’orario in cui esplose la bomba. Il destino ci risparmiò. Partimmo una settimana dopo, attraversando la stazione con le sue macerie. Grazie a quella circostanza casuale, evitammo di scoprire se saremmo sopravvissuti.

Cosa resta di quei ricordi? Molto, pure troppo. A me capita ogni tanto di passare dalla stazione bolognese. Ogni volta - è successo di nuovo pochi mesi fa - sbircio dall’esterno nello squarcio provocato dalla bomba sul muro portante. Ora la breccia è chiusa da un vetro: si vede la gente dentro, seduta tranquillamente in attesa, oggi come in quel giorno maledetto. Poi entro, mi avvicino alla porzione del pavimento originale, con il cratere lasciato dall'ordigno (era stato nascosto in una valigia), quindi leggo, uno ad uno, tutti nomi delle 85 vittime del terrorismo fascista, scritti sulla lapide posta a sinistra della grande crepa. Accanto c’è l’età: si va dai 3 anni agli 86. Tra i nomi di tanta gente massacrata "per caso" mi colpisce spesso quello di uno dei turisti stranieri: un ragazzo giapponese innamorato dell'Italia. Forse lo ricordo perché con i nostri drammi italiani non c'entrava proprio nulla e non ne sapeva nulla.



Ho cercato informazioni su di lui. Iwao Sekiguchi, 20 anni, studiava Letteratura nipponica a Tokyo. Era affascinato dalle nostre origini, dalla nostra arte e dalla nostra religione. Aveva ottenuto una borsa di studio del Centro Culturale Italiano di Tokyo, con quei soldi sarebbe potuto rimanere un mese a Firenze per studiare l’italiano. Partito il 22 luglio dal Giappone, aveva raggiunto Roma il 23, dove era rimasto per una settimana, ospite di un amico. Quindi era partito per Firenze e da lì, il 2 mattina, per Bologna. Sarebbe dovuto essere un breve viaggio, per fare poi ritorno in Toscana. I soldi ottenuti con la borsa di studio non erano sufficienti per tutto, ma Iwao era riuscito a mettere da parte qualcosa dando lezioni private per due anni. Aveva assicurato ai genitori che se la sarebbe cavata. Ai tempi non c’erano i social network. Però nelle ultime pagine del suo diario, sul quale riportava con precisione ciò che faceva, si legge: "2 agosto: sono alla stazione di Bologna. Telefono a Teresa ma non c'è. Decido quindi di andare a Venezia. Prendo il treno che parte alle 11:11. Ho preso un cestino da viaggio che ho pagato cinquemila lire. Dentro c'è carne, uova, patate, pane e vino. Mentre scrivo sto mangiando".

Poi basta. Iwao aveva solo 2 anni meno di me, all’epoca. Nessun amico lo fermò prima che partisse. Mi viene in mente una poesia della poetessa polacca Wislawa Szymborska (1923 - 2012): "È accaduto prima. Dopo. Più vicino. Più lontano. È accaduto non a te. Ti sei salvato perché eri il primo. Ti sei salvato perché eri l'ultimo".

Post scriptum

La Procura generale di Bologna, che nel 2017 ha avocato a sé l’indagine innescata dall’analisi dei documenti svolta dall’Associazione tra i familiari delle vittime della strage, è arrivata alla conclusione che dietro alla bomba alla stazione ci sono state quattro menti: quelle del capo della P2 Licio Gelli (1919-2015), del suo braccio destro Umberto Ortolani (1913-2002), del capo dell’ufficio Affari riservati del Viminale, Federico Umberto D’Amato (1919-1916), e del piduista e senatore del MSI post-fascista, Mario Tedeschi (1924-1993). Gelli e Ortolani vengono considerati i mandanti e finanziatori della strage. Il potentissimo D’Amato, regista delle principali trame occulte italiane, è accusato di essere mandante e organizzatore dell'attentato; anche lui era iscritto alla P2. Faceva parte della loggia di Gelli – tessera numero 1.643 – pure Tedeschi, direttore de Il Borghese e senatore del Movimento sociale: per gli inquirenti ha aiutato D’Amato nella gestione mediatica degli eventi preparatori e successivi alla strage e anche delle attività di depistaggio.

La sentenza emessa nel 2022 dalla Corte di Assise di Bologna ha condannato all’ergastolo il neofascista di Avanguardia nazionale Paolo Bellini, considerato uno dei cinque esecutori della strage insieme a Fioravanti, Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini (riconosciuto colpevole in primo grado). E oggi? In questo 2023 non è previsto che la premier Giorgia Meloni, segretaria di FdI (partito erede del MSI), partecipi alle commemorazioni delle vittime della strage. Difficile non notare una circostanza: è il primo anniversario che cade mentre è in carica un governo capeggiato dalla destra post-missina; al posto di Meloni ecco Matteo Piantedosi, ministro dell'Interno in quota Lega. L’altro giorno Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime, in un’intervista a La Stampa ha detto che "dalle parti del governo assistiamo a manifestazioni sgradevoli di amici dei terroristi. O quantomeno in sintonia con i loro interessi".

Amen.

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