NELLA SCUOLA
DI PARTITO
"TUTTI SUBITO
A BOLOGNA"

La notizia arrivò da Botteghe Oscure poco prima della pausa per il pranzo. Una telefonata dalla sezione Scuole di Partito, forse di Gensini o forse di Aida Tiso, al direttore dell’istituto di Faggeto Lario, Giuseppe Calzati. Era di poche parole, parlava piuttosto con gli occhi, e quella volta però, convocandoci, li teneva stranamente bassi. Chiamò subito noi, gli “istruttori”, e fu laconico, come mai prima. Disse che non si sapeva nulla di più di quanto ci stava comunicando, e aggiunse solo che la Direzione da Roma avrebbe richiamato nel pomeriggio, per darci le prime indicazioni. Ricordo un silenzio cupo, poi un pugno sul tavolo di uno di noi. Bisognava convocare in fretta gli “allievi” dei corsi, una cinquantina di “quadri” provenienti dalle diverse federazioni, che avevano scelto di rinunciare alle ferie e venire lì, in quello stendhaliano angolo riposto del lago di Como, per curare la loro formazione politica. Li avevamo lasciati nelle aule in attesa, ma ben presto a pranzo avrebbero appreso la notizia dalla televisione o dalla telefonata di qualche parente da casa. Non potevamo tardare.



Calzati ripeté le scarne parole dette a noi e convocò tutti in aula magna per il primo pomeriggio, dopo l’attesa telefonata da Roma. Ebbi come un fremito di paura, all’improvviso. Quel luogo, intriso di una bellezza ancora ottocentesca, dov’era consuetudine preparare i miei appunti di una lezione all’ombra della grande araucaria cantata da Neruda, o discutere coi compagni dell’ultimo Comitato Centrale, era indifendibile. Pensai a quella mattina di qualche mese prima quando il titolo cubitale de La Repubblica dava conto, in prima pagina, della scoperta di un “covo”, a Bellagio, una ventina di chilometri dalla scuola, dove s’era riunita per un periodo la direzione strategica delle Brigate Rosse. Pensai che nei brevi periodi in cui la scuola restava chiusa, affidavamo le chiavi per ogni evenienza a Mosè e al figlio Luigi, i gestori dell’unico bar-ristorante all’epoca, entrambi convinti sostenitori del Movimento Sociale Italiano. Erano loro i nostri unici custodi. E pensai a quella sera fredda d’inverno di una decina d’anni prima, studente ancora del Setificio di Como, lo sgomento alla vista dei giornali del pomeriggio su Piazza Fontana. Ora Bologna, il treno. Qualche mese prima Ustica, l’aereo.

Ma in quel momento i miei, in realtà, non erano pensieri veri e propri. Piuttosto immagini, conficcate dentro la mente, che si addensavano adesso tutte insieme in uno stesso punto, una dietro l’altra. E potevano farti tremare. Il pensiero, quel filo consapevole che a fatica provavo ad imbastire per contrastare quel tumulto, lo ebbi poco più tardi, dinanzi alla domanda che tutti noi, dal direttore a noi istruttori, agli allievi, al personale della scuola, ci stavamo solitariamente ponendo. Che avremmo fatto in quelle ore, e in quelle dopo, e nel giorno della manifestazione del sindacato, e in quello dei funerali delle vittime? Quale filo riprendere, dei tanti; non ce n’era più uno solo, dopo quella bomba alla stazione. Sarei andato a Bologna il giorno dei funerali, il mercoledì. Saremmo tutti dovuti andare ai funerali, in Piazza Maggiore, questo pensavo, e sentivo, e volevo. C’era un viaggio da compiere, e non coincideva in tutto con la distanza che separa Faggeto Lario dall’Emilia.Sospendere il corso, chiudere per qualche giorno la scuola, addentrarsi in quel dolore, misurare il risvolto irrazionale dell’impotenza dentro la geometria del discorso politico, una geometria certo giusta, necessaria, ma vera solo in parte, perché chiusa nelle proprie giustificazioni.



Quella invece era una cesura da attraversare, niente di essa poteva essere messa da parte. Informai il direttore e i miei compagni istruttori. Con qualche ritrosia, o forse timidezza. Erano tutti più grandi di me, con un’esperienza di vita di partito ben più solida della mia. E poi esistevano le gerarchie, in quella grande, e bella, comunità che era quel partito, dovevo saperlo, tenerne conto. Capii subito che se io non avevo alcun dubbio nel sospendere ogni cosa, loro non ce l’avevano nell’andare avanti. In aula magna, con gli allievi, parlò il direttore. I fatti, nel pomeriggio, risultavano naturalmente dai contorni più chiari che non le prime notizie del mattino. Poi era stato a lungo al telefono con Botteghe Oscure, con la Federazione di Milano, prima di venire in assemblea. Forniva notizie dirette e sviluppava un ragionamento di bruna simmetria logica, razionale, la voce acuta ma ben impostata. Ed era colto, più di tutti noi. Citò Luigi Longo, in occasione dell’attentato a Togliatti in via della Missione; e ne trasse, con un sillogismo politico che mi parve troppo meccanico, o scolastico, un’indicazione concreta, immediata, sul da farsi. Gli “allievi” manifestarono opinioni differenti, ma ciascuno si ripromise di seguire in maniera unitaria l’indicazione che sarebbe prevalsa. E così fu.

Il corso proseguì. Eravamo tutti molto scossi, lo fummo a lungo, ogni cosa cambiò in quei giorni. Partii da solo per Bologna. Viaggiai la notte. Al mattino sul presto la città era avvolta dal silenzio, come quelle tante altre volte che ci giungevo per una riunione e avevo il tempo per un caffè e due passi lenti in centro prima di andare in federazione. Ma quel silenzio stavolta avvolgeva una moltitudine volta avvolgeva una moltitudine di persone attorno a me. Senza canti, senza slogan da intonare. Mancavano le voci, mancavano le parole. Entrai non so come in San Petronio, percepii il brusio dei presenti verso i politici che entravano a gruppi, gli applausi diretti a Sandro Pertini, seguii l’incedere curvo di Berlinguer, solo, un passo dietro gli altri. Fuori Piazza Maggiore era già gremita, la gente rientrata in fretta dalle vacanze, la coda di persone fino alle due Torri, e per ogni dove.

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