Tutto sommato, quel sabato sembrava un sabato qualsiasi. Ero arrivato in redazione molto presto, rispetto ai miei doveri: l’edizione di Bologna, che curavo da Milano, entrava in funzione più tardi, nonostante la diffusione domenicale, anticipata. Fuori aveva già cominciato a far caldo e in redazione, grazie all’aria condizionata, si stava bene. Avevo cominciato a leggere i giornali. Tutt’a un tratto, le telescriventi cominciarono a far suonare i campanelli, allora non c’erano ancora i computer. I fattorini, guidati da Garanzini, ex capo partigiano, andavano su e giù, portando i flash d’agenzia ai capiredattori. Erano da poco passate le 10,25. Qualche minuto più tardi, mi racconta Jenner Meletti che allora era il capo della redazione bolognese, gli squillò il telefono: “Dottor Meletti – era una donna, sua vicina, voce trafelata – è esplosa la stazione!”. Jenner non era in città, ma si precipitò in redazione, in via Barberia, a tutta velocità.
Intanto il finimondo assumeva una fisionomia inaspettata e tragica. Le redazioni di Roma e Milano si misero al lavoro. Quella di Bologna fece affluire informazioni tempestive, sempre più precise, secondo una scuola rigorosa che l’Unità, ai tempi, sapeva assicurare più di ogni altro giornale. I primi ad arrivare sul posto furono Vera Vegetti e Raffaele Capitani, insieme ad Angelo Scagliarini. Vera e Raffaele, una volta di ritorno in redazione, prima di scrivere si procurarono una bottiglia di whisky: quello scempio era troppo anche per cronisti di grande esperienza. In via Barberia, nella piccola redazione dell’Unità (quella grande, storica, era in ristrutturazione) arrivò metà dei giornalisti italiani. L’altra metà venne ospitata dal Resto del Carlino. Il giornale era una macchina perfettamente oliata. Lo dimostrò anche in quell’occasione.
Da viale Fulvio Testi, sede della redazione milanese, partirono subito Bruno Enriotti, ex capocronista di Milano, e Orazio Pizzigoni, inviato, per dare una mano ai bolognesi. Tra Roma, Milano e Bologna le telefonate erano continue. C’era da capire cosa fosse davvero successo. Il governo tentennava e non si decideva a dare una versione ufficiale. C’era chi parlava di una caldaia saltata, in mezzo a tutte quelle persone in attesa dei treni, e chi, invece, parlava di una bomba. Enrico Berlinguer, da Botteghe Oscure, raccomandava prudenza, mentre il segretario regionale Guerzoni insisteva nell'evocare l'attentato. Il problema, per l’ Unità, era quale titolo scegliere per aprire il giornale, quale delle due versioni offrire al Paese. Il tira e molla durò fino alle 23 di quella giornata drammatica.
Solo allora si optò per un titolo che non ammetteva dubbi: la stazione era stata distrutta da una bomba. Un attentato fascista aveva cancellato quelle vite. Il titolo scelto rispecchiava senza reticenze la realtà: “Una strage spaventosa – Oltre settanta morti e 200 feriti – Quasi certo: un atroce attentato fascista”. Di taglio basso, a destra, la voce del governo: “Rognoni: 'Non conosciamo ancora le cause dell’esplosione'. Nell’edizione del giorno successivo, Massimo Cavallini, grande inviato da Milano, usò parole molto nette: “La città lo aveva capito prima. Molto prima. La gente 'sapeva'. Prima che il ministro Rognoni balbettasse qualche inutile frase di circostanza di fronte ai giornalisti”.
In quanto anello di congiunzione tra la redazione di Bologna e la tipografia, avevo il compito di ricevere i pezzi da inviare in pagina, “passarli” (cioè correggerli, cercando di evitare possibili errori) e mandarli in tipografia dove sarebbero stati trasformati in righe di piombo, allineate in telai pronti per la stampa. Un lungo procedimento, in parte redazionale e in parte tipografico, che doveva essere accompagnato rispettando orari precisi, che avrebbero permesso l’invio del giornale in ogni parte del Paese. A sovrintendere al rispetto degli orari, qualsiasi cosa succedesse, c’era il proto Marnati, che era solito presentarsi ai più giovani con poche parole: “Un buon redattore – diceva – deve essere strabico: un occhio al telaio, l’altro all’orologio”. Indicava la parete in fondo alla tipografia, che allineava tutti gli orologi che indicavano l’ora di chiusura delle varie pagine (Bologna, Reggio, Modena, Torino, Venezia, Genova), e si accomiatava stritolando con gusto la mano dell’interlocutore con la sua, d’acciaio.
Quel 2 agosto ognuno fece la sua parte. In redazione tutti riuscirono a restare concentrati. Lo sgomento per ciò che era avvenuto a Bologna, ognuno se l’è macerato per conto suo. L’importante era che il giornale uscisse, che arrivasse fin nell’ultimo paese, perché tutti sapessero cos’era accaduto, cosa stava accadendo. “Vigilanza” era la parola d’ordine per tutti. Il che si traduceva in un richiamo, severo, al proprio impegno.
Ricordo che quel giorno, con l’adrenalina a mille, lavorai senza neppure rendermi conto dello scorrere del tempo. Con i compagni di Bologna condivisi ogni scelta. Una, in particolare, mi stette a cuore. Le pagine di cronaca seguenti la prima si dovevano aprire con un motivo grafico, da scegliere. Bologna propose una foto della stazione distrutta. Io scelsi la foto dell’orologio fermo sull’ora della strage. La feci realizzare solarizzata, dai tipografi della zinco, dove si preparavano i cliché. L’indomani, notai che il Corriere, in nazionale, aveva fatto la stessa scelta.