ADELAIDE AMENDOLA
IN PRINCIPIO
FU IL DETTAGLIANTE
In principio c’era il dettagliante con la mercanzia esposta sul marciapiede, se non sulla strada: dall’uscio del suo negozietto o dal palchetto del mercato ti imboniva, ti presentava il prodotto, ti prometteva e ti praticava sconti. O almeno fingeva di praticarteli. Quando giravo per la fiera del paese, che si teneva e si tiene ogni anno nel mese di novembre, restavo incantata a sentirli. Erano gli epigoni di una pratica millenaria. C’era il venditore di materiale elettrico, che agitava il filo di prolunga, definendolo come l’ultimo ritrovato dell’elettronica milanese; o quello di padelle e casseruole che, dopo avere decantato i formidabili pregi della pentola che aveva in mano, cominciava il conto alla rovescia. Ritto sulla sua postazione, con il megafono in mano, tuonava: “E non ve la do per cento, non ve la do per novanta …” e così via, fino alla soglia dove potevano incrociarsi le reciproche convenienze, sue e delle massaie, che lo ascoltavano a bocca aperta.
Che rapporto ho con la vendita online e, in genere, con il circuito del commercio e dei servizi smaterializzati? La prima cosa che mi viene in mente è che la svolta – il punto di rottura – tra l’approccio tradizionale alle transazioni e quello oggi tanto in voga, è iniziata molto tempo prima che computer, Ipad, cellulari e piattaforme social inondassero le nostre vite. Tutto è partito quando sono arrivati i supermercati e i grandi magazzini, perché è lì che il filo si è rotto. L’idea di fondo è che in quelle strutture tu giri e cerchi da te quello che ti serve: al posto del bottegaio che accompagna il cliente e il cliente che un poco lo ascolta e un po’ ne diffida, c’è la disposizione seduttiva dei prodotti, con la silenziosa e invisibile capacità attrattiva di colori e foto pubblicitarie sapientemente combinati. Entri per comprare un paio di mutande confortevoli e castigate al punto giusto ed esci con modelli vicino al perizoma: un filo di qua, un filo di là, che neppure sai come indossare, la parte da mettere avanti e quella da mettere dietro. Un disastro. E tutto per paura di cascare sui mutandoni da vecchia obesa.
Si è capito: ho un rapporto dialettico già con queste forme di commercializzazione. Figuriamoci con la vendita online che, allo stato, ne rappresenta la massima espressione. Non nego affatto che possa essere estremamente comodo accendere il computer e ordinare seduta stante un libro. Ma vuoi mettere il profumo della stampa, il piacere della chiacchierata con il libraio, quando il libraio sia uno che ha idea di quello che mette in vendita?
Peraltro, l’unica volta che mi avventurai da sola su un sito, alla ricerca delle istruzioni del frullatore che erano andate perdute, finii nella trappola di truffatori che mi svuotarono d’un solo colpo la carta di credito. E meno male che era una prepagata. Andò meglio con l’aiuto delle mie figlie, qualche anno fa: vistami in preda alla disperazione perché non avevo tempo di andare alla ricerca di un paio di stivaletti eleganti di colore blu, risolsero il problema in un baleno, mostrandomi dal cellulare la foto di due tronchetti scamosciati. Cotto e mangiato: li acquistati. Però, quando arrivarono, mi accorsi che, soddisfacente la misura, il colore e anche la qualità, avevano la punta stretta e lunga: quella che sempre mi ha fatto orrore, perché mi ricorda il naso della strega.
Me li sono tenuti, naturalmente però, ogni volta che li tiro fuori dalla scarpiera penso con nostalgia a Carminuccio, il calzaturiere del paese, che era solito sponsorizzare i pregi estetici della sua mercanzia lodando la stitichezza della scarpa. E per una strana associazione tra questo ricordo e la loro forma stretta e appuntita ho finito per chiamarle tra me e me le scarpe stitiche.