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KOH SAMUI
ARRIVEDERCI
IL FASCINO
DI BAN TAI
E MAE NAM


testo e foto
di MANUELA CASSARÀ
e GIANNI VIVIANI

27 marzo 2023

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Dopo 72 giorni, tre cambi di aereo, 15 effettive ore di volo, sei di transito a Bangkok poi a Doha, un altro paio cercando di sonnecchiare, dopo una notte insonne, sull’Autostradale da Malpensa a Torino, eccoci tornati a casa. Totale 24 ore da porta a porta.

Non abbiamo baciato lo zerbino solo perché era impolverato. La differenza con l’andata, quando erano bastate 17 ore e qualche manciata di minuti, si è fatta sentire. Il vento contro ha fatto quella differenza.

Abbiamo volato Qatar, che sarà anche, come si pregiano di conclamare, la migliore compagnia del mondo per ben la settima volta, ma ho il sospetto che la graduatoria valga se viaggi in Business o in Prima, dove ti trattano come un emiro. In turistica, niente da dire sul cibo o sulla gentilezza delle assistenti di volo, ma molto da dire sul comfort dei sedili che, per quanto nuovi, sono stretti e ravvicinati.

Non vanno forte nemmeno con il Servizio Clienti. Se volete sapere se i vostri bagagli arriveranno fino a destino, non perdete tempo a chattare con Qatar. Ve lo dico io: SI!

E questo perché la Bangkok Airways, l’unica che atterra a Koh Samui, essendo in regime di code sharing etichetta i bagagli fino alla destinazione finale e fornisce pure le carte d’imbarco. Non dovrebbe essere difficile dirlo e rassicurare i poveri viaggiatori. Invece.

Dicevo, siamo tornati. Vivi e vegeti.


Cosa che non era necessariamente scontata, stando a quanto si evinceva dal costoso premio dell’Assicurazione Viaggi, che per i settantenni sale esponenzialmente. Sarà anche stata inutile, ma ciò non toglie che è indispensabile. E non solo scaramanticamente. Quindi va fatta, perché di gente con braccia e gambe fasciate ne abbiamo viste parecchie, in due mesi e mezzo. E a questi era andata bene. Gli incidenti in motorino sono all’ordine del giorno.






Abbiamo persino evitato la paventata versione Thai della Maledizione di Montezuma; a parte un fugace episodio risolto con un paio di non meglio identificate pilloline ingoiate sulla fiducia. Del resto, nonostante avessi seguito tutti i diktat, lavato i denti con l’acqua minerale, evitato insalate e frutta sbucciata, me l'ero cercata. Mi era bastato qualche giorno per capire che little chili era un concetto opinabile a totale discrezione del menefreghismo dello chef, e che solo un perentorio NO chili garantiva una dose di piccante appena gestibile dalle mie pareti intestinali, tuttavia, quotidianamente, godevo di quella cucina aromatica che suppliva con il sapore alla mancanza di esotico folklore che ci circondava.


Non così il beneamato. Dei due, lui è il più salutista. Con l’aggiunta di un pizzico, solo un pizzichino, di simpatica ipocondria. Il cibo esotico, che a me incuriosisce e delizia, lo rende guardingo. Si saranno lavati le mani? Avranno sciacquato la verdura con l’acqua filtrata? Avranno cotto a dovere il pollo? Il pesce non sarà andato a male? E i piatti, come li lavano?

Troppe incognite. Così, preferibilmente, lo evita; se per questo anche a casa, dove riuscire a cenare in ristoranti cinesi, indiani, con l’eccezione per alcuni giapponesi di specchiata reputazione, è il risultato di baratti e penose trattative.


Aveva iniziato bene, come mangiatore entusiasta di Pad Thai, ma dopo una trentina di giorni, sospetto per saturazione, era passato alla neutralità vegetariana del fried rice. Qualsiasi piatto che includesse pesce, dopo averlo visto galleggiare, defunto, nel ghiaccio semi sciolto sui banchi del mercato, non c’era verso di farglielo provare. Gamberoni inclusi.


Nell’ultimo mese era arrivato a nutrirsi solo di pasta, persino quella dei ristoranti thai che offrivano improbabili carbonare e spaghetti bolognaise nei loro menù. Ogni tanto, confesso di comune accordo, ci rifugiavamo in un ristorante italiano, per una pizza Napoletana come si deve. Costava come a casa, e bastava l’aggiunta di due capperi e di un paio di acciughine, per fare lievitare il prezzo a 360 bath, che sarebbero circa i nostri €11.


Ma quello sporadico carboidrato nostalgico ci rimetteva in pace con il creato.


L’ultima sera c’eravamo concessi un trattamento VIP da Suppara, suggerimento colto su una delle tante pagine Facebook, che consiglio di seguire, cercando di ignorare i non pochi commenti idioti. Cucina oserei dire stellata, serviti e riveriti. Da cui ero stata inflessibile “Niente carbonara! Tanto non cè”.


Non che fosse denutrito. La colazione, che gli preparavo ogni mattina, suppliva con vitamine e aminoacidi alla monotonia della dieta: yogurt probiotico al cocco, un paio di quelle micro banane saporitissime e mature, mezzo mango tagliato a dadini e una calorica manciata di noci pecan e macadamia.
A casa gli mancherà anche quel delizioso succo di cocco, fresco di pianta e di frigo, sorseggiato appena arrivati in spiaggia.


Avendo esigenze morigerate in fatto di vino e cocktail, li limitava a eventi sporadici, concedendosi ogni tanto una birretta, una Singha, mentre io approfittavo delle happy hours a 99 bath per fare il pieno di vitamina C con Margarita e Capirinha. Fuori da quella fascia oraria un cocktail ne costava 250.
Perché tutta questa ossessione con il vile denaro?
Per ribadire che, alla fine, se non sei in regime da backpacker i soldi vanno via veloci. Nel loro caso suppongo vengano spesi in altro modo, per dosi di ganja, birra e quant’altro.

 















È arrivato il momento di colmare i finora “non detto" e di elencare i "non fatto", per cercare di raddrizzare, senza nulla rinnegare, quel tiro che, nelle puntate precedenti, sarà sembrato forse ipercritico.

Iniziamo con il dire che, persino alla settima settimana, motivati da un meteo che annunciava un’ulteriore sfilza di giorni con pioggia - Gennaio era stato un disastro, Febbraio ci sorprendeva ancora, spesso e volentieri, con acqua a catinelle - ci eravamo equipaggiati con due poncho spessi come una “canadese” ed eravamo usciti dalla nostra zona di comfort in fatto di spiagge, per spostarci a nordovest, alla ricerca di altri lidi.


Il nostro driver fino a quel momento, quel Mr Ja di cui avevo parlato, senza tante spiegazioni ci aveva mollato la sera prima, rivelandosi creatura spocchiosa e rancorosa, non tanto o meglio non solo verso di noi nello specifico, quanto verso i turisti in generale. Capita se sei di natura orgoglioso, se fatichi a tirare avanti, se pensi che i farang vivano negli agi e che siano venuti a sfruttarti. Ma per un mese e mezzo gli avevamo assicurato una media di € 25 al giorno – cifra che copriva andata e ritorno per la spiaggia al mattino, e trasferta serale per cena, magari a Chaweng o al Fisherman Village, accettando senza favoritismi quelli che erano i prezzi di mercato.


Stupidi noi a non aver previsto di affittare una macchina. Tenetelo presente e premunitevi di patente internazionale. Non mi mai stancherò di ripeterlo.

Improvvisamente appiedati, siamo stati salvati da Pookies, una graziosa giovane signora dal corpicino esile, i lunghi capelli corvini, la voce gentile e un incomprensibile inglese privo di consonanti, che avevamo usato come tramite per un paio di escursioni, perché quello fa di mestiere, oltre a procurare autisti. Nel nostro caso era diventata lei il nostro driver, disponibile a tutte le ore, nonostante il lavoro di agenzia, un marito e un paio di impegnativi pargoletti iperattivi, che cercava inutilmente di tenere a bada con un tono di voce sussurrato; lei che ci offriva con garbo dolcetti fatti in casa, lei che l’ultimo giorno ci ha accompagnato in aeroporto come farebbe un’amica, abbracciandoci, senza farci pagare.


Nonostante l’ennesimo acquazzone in corso, ci aveva depositato sotto la fila di lanterne rosse che segna l'entrata del Chinese Village di Mae Nam. Avevamo proseguito a piedi per un paio di chilometri lungo quell’unica trafficata arteria che prosegue fino al porto di Nathon: esercizi commerciali, segherie, negozi di mobili, supermercati e discount, l’inevitabile sfilza di 7/11 perché a Samui ce n’è sicuramente uno pro capite. Una stradina con la dicitura each Way prometteva di poter finalmente arrivare al mare. Dopo un inaspettato Segafredo Moment in un baretto che si pregiava di quell’insegna familiare, dopo un pregevole espresso con brioche al cioccolato, eravamo arrivati ad una lunga spiaggia dorata, limitata da una frangia di palme ricurve, fascinosa come ogni spiaggia tropicale dovrebbe essere.


Mae Nam Beach, un posto dove ancora frusciavano le fronde e si sentivano solo le onde. Sul bagnasciuga, con noi, come noi, qualche camminatore solitario. Tra le palme s’intravedevano piccoli bungalow dall'aria ben messa, fino all'incontro con una fila di goduriosi lettini che indicavano la presenza di un lussuoso resort, il Santiburi. Previo l’esborso di 2000 Bath (circa € 57 a persona) per un Day Pass, inclusivo di una consumazione del valore di 1000 bath (€ 28), dell’asciugamano, di una bottiglietta d’acqua minerale e dell’accesso in piscina, il Santiburi, contrariamente ad altri, era democraticamente aperto ai visitatori, come si era affrettato a spiegarci con fare suadente il premuroso inserviente. Il beneamato ne era stato tentato, ma avevamo desistito, per concederci un pranzetto più alla nostra portata al Talay, un chiringuito incontrato per caso, a ridosso di un tempio cinese molto colorato, con un menù fusion a prezzi da traveller. Ci saremmo ritornati.


La dritta migliore ce l’aveva data Pookies e gliene siamo ancora grati: al TreeHouse, un coloratissimo agglomerato di bungalow e bandierine, la titolare è tedesca e sospetto buddista, ci si arriva per una stradina sterrata, che è già un bel preambolo, fiancheggiati dalla jungla e da radure con bufali al pascolo. Follow the Flowers dicono i cartelli, basta seguirli come Pollicino. Saranno i ricordi di Goa, memorie di un’irrecuperabile giovinezza, ma Treehouse è stato un flashback temporale, e l’ho eletto come posticino preferito. Prenotazione d’obbligo per avere un tavolo fronte tramonto. E se anche il servizio è un po’ erratico, rilassatevi e godetevi il panorama.

A un paio di chilometri, avevamo scoperto Nana Beach; pochi lettini, quattro ombrelloni, l’arancione come colore istituzionale e una decina di bean bag tipo Fat Boy. Quelle le evitavo. Senza il soccorso del beneamato, sarei ancora lì a cercare di alzarmi con la grazia di un dugongo. Mare pulito, calmo, relativamente profondo, cosa che non va data per scontata, aggiungeteci l’ottimo cibo, la simpatia sorridente della titolare e del suo staff, che ci accoglievano come due di famiglia, un paio di serate con musica e quelle con fuochi d’artificio, che si poteva desiderare di più?














Ci siamo spinti oltre, arrivando a Ban Tai; ci avevano suggerito il Mimosa come un posticino di delizie, ma si era rivelato rumoroso, affollato, senza fascino, almeno per i nostri gusti, come il limitrofo La Perle, un’enclave tutta francese priva di charme, dove non siamo più tornati. Proseguendo qualche metro, il mio cuore era stato invece conquistato dal contiguo Cape Away, disordinato, affollato di bimbi, amache e altalene, con un mare trasparente punteggiato da rocce scenografiche. Dopo sessanta frustranti giorni, in zona cesarini, avevamo trovato il nostro paradiso.

Se mai qualcuno, nonostante i miei reportage su Samui, vorrà venirci in vacanza, ricordate queste parole, Ban Tai e Mae Nam. Per quel tanto di scalcinato, quel molto di fascino, quel giusto po' di Robinson, ci sono piaciute da subito e giorno dopo giorno, in quei nostri venti giorni rimasti, ne abbiamo approfondito la conoscenza. Era la Samui che ci aspettavamo, più a nostra immagine e somiglianza. Non credo per molto. E non necessariamente per tutti. C’é chi ama farsi coccolare nell’atmosfera elegante dei resort stellati. In tal caso, se vi piacciono i 5 stelle da pashà, fate come Hillary Blasi, mirate in alto, scegliete W! Che guarda caso è da queste parti.

 


Avevo promesso un mea culpa, e quindi eccomi qua a elencare tutto quello che non abbiamo fatto a Samui, cose che se fossimo stati turisti come si deve, avremmo forse dovuto fare.

Per esempio non siamo andati a Koh Phangan per i Full Moon Party. Per petting sfrenato, sesso sulla sabbia, sballamento a suon di musica e joint a go-go, siamo ormai fuori target. Più difficile da spiegare è perché qui, dove costano così poco, dove decine di fanciulle ad ogni piè sospinto ti abbordano con i loro “Masaaaaageeeee madaaaaaaaam?” non mi sia fatta fare nemmeno un massaggio. Fosse solo per ammazzare la noia delle tante giornate piovose.


Semplice: non fanno per me.

Il primo tentativo era stato una trentina di anni fa, su al Nord, a Chang Mai, trascinata da un’amica che invece se li gode; su un materassino per terra, un’energica piccola signora in costume tradizionale, per un’oretta si era messa a passeggiare su e giù per la mia schiena, procurando preoccupanti scricchiolii alle mie vertebre.

La seconda volta, una ventina e passa di anni fa, mi ero fatta tentare da un trattamento rigenerante in un resort all inclusive a Maiton Island, Thailandia lato Pukket. Avevano iniziato con il mettermi a mollo in un liquido schiumoso, una specie di brodo primordiale dall’aspetto inquietante. Dopodiché, umida, con strani pezzettini di roba marrone rimasti appiccicati sul mio corpo, mi avevano cosparsa con un minestrone di verdura e, dopo avermi avvolta come una mummia nel domopack, mi avevano abbandonata su un lettino con l’imperativo di rilassarmi. Una volta “sfasciata”, mi avevano oliato per benino e preso a schiaffoni in ordine sparso.


Ci avevo riprovato recentemente. Mi ero concessa una seduta ayurvedica in Kerala. Stanza spartana, piazzata su un nudo tavolaccio, coperta a mala pena da un esiguo telo di cotone a trama larga, una silenziosa inserviente aveva iniziato a far scendere un olio caldo e dorato da un’ampolla appesa sulla mia testa. Goccia dopo goccia, come si fa per montare la maionese. L’inarrestabile flusso mi aveva impregnato dapprima i capelli, proseguito sul collo e sullo stomaco, giù, giù fino alla punta dei piedi. Biotta, bisunta e scivolosa, sentendomi una foca monaca spiaggiata, c’erano voluti giorni per recuperare quel poco di autostima che mi accompagna.

Auanto al beneamato, pure lui li detesta, i massaggi. Perché è peloso, dice. Anche se avrebbe potuto scegliere quelli con l’Happy Ending, una nicchia di mercato ben nutrita da single di sesso maschile, di prevalenza in andropausa.


Prima di essere considerati come due pantofolai mollaccioni, vorrei mettere agli atti che, a suo tempo, non c’eravamo fatti mancare un po’ di avventura: un paio di rafting in Australia, una zip line non ricordo dove, due molto faticosi trekking in Venezuela e in Costa Rica - incluso l’indimenticabile incontro ravvicinato con un mortifero serpentello detto sette passi.

Ciò nonostante, qui a Samui, abbiamo evitato il gettonatissimo Jungle Tour in jeep o, peggio mi sento, con il quad; questo perché, nonostante qualche invitante scatto sulle brochure dei tour, mi sembra improbabile che sia rimasto un metro di giungla su questa isoletta.


Scartata pure la zipline, non abbiamo più vent’anni, stavolta ci avrebbe fatto venire la labirintite. Per quanto ce lo fossimo ripromesso, non siamo riusciti ad andare al Roof per un aperitivo con vista. Peccato! posto fotogenico e fascinoso. Da coppiette cheek to cheek. Ci siamo persi l’escursione in barca a Koh Madsun, l’isola dei Maiali, non è il nostro genere, ma pare vada per la maggiore.

Rimpiango invece, causa condizioni del mare che ce l’hanno fatta rimandare fino a non farla, quella al Parco Nazionale Marino di Koh Ang Thong; il panorama in quel dedalo di rocce carsiche è spettacolare, anche se la prospettiva di una pagaiata in kajak sotto il sole cocente, contrariamente ai più, non mi faceva impazzire. Sono incerta se rimpiangere di non essere andati ad accudire gli Elefanti, ma non eravamo sicuri se fosse cosa buona e giusta. Però confesso che mi sarebbe piaciuto accarezzare quei nasoni.


Momento cultura con visita ai due principali templi, quelli più vicini: il Big Budda con la sua ruota della vita, dodici metri dorati che fanno la loro bella figura quando riflettono la luce del tramonto, e Wat Plai Laem, questo davvero dietro casa, un colorato complesso costruito solo nel 2004 su una serie di isolette sopra un alquanto stagnante lago artificiale, abitato da una miriade di famelici pesci gatto, ingrassati dai fedeli. Erano abbastanza disgustosi. I pesci, intendo. Ciò nonostante lo preferisco, perché dedicato a Guanyin, dea cinese della compassione, fonte di amore incondizionato, protettrice degli esseri umani, nonché dea della fertilità. Tanta roba.

Povera, da me tanto bistrattata Koh Samui, ex isoletta di pescatori, vittima d’imprenditori che l’hanno trasformata in un posto povero di spirito. Spirito che resiste là dove non è arrivato il benessere. Nel quotidiano delle retrovie, in stradine nascoste, nella vita che si svolge, semplice e difficile, in casette fatiscenti, tra cumuli di rottami, dove, passando, si è accolti con un sorriso. Il sorriso rassegnato degli ambulanti sulla spiaggia, quel loro moto perpetuo dal passo affaticato, appesantiti da strati di stracci, perché avere la pelle chiara, non farla diventare più scura, significa nascondere l’umiltà della propria realtà. La dignità di non apparire dei paria.

Che penseranno di noi che, per raggiungere lo scopo opposto, avere un corpo color cuoio conciato, ci ungiamo, ci denudiamo, ci sottoponiamo per ore a una lenta cottura, pur di ottenere l'agognata, malsana, abbronzatura?





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