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KHAO SOK
LAGHI ARTIFICIALI
E SAFARI
SFORTUNATI


testo e foto
di MANUELA CASSARÀ
e GIANNI VIVIANI

15 febbraio 2023

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Arrivato al Jungle Hut Resort di Khao Sok, che stando al web aveva recensioni a dir poco entusiastiche, sulle quali è buona cosa fare sempre la tara, frullato dai sobbalzi, al mio beneamato compagno di viaggio ormai giravano a girandola. Entrato nel bungalow senza frilli, con due solidi letti queen size, aveva sentenziato: "Squallido!"

Principesso sul pisello. Ecco cosa è diventato. Non è più quello che aveva dormito, persino divertito, sotto le coltri fradicie del bungalow nella foresta pluviale di Andringita in Madagascar, o nel lodge fronte piranha sull'Orinoco, o nello scalcinato alberghetto covo di tagliagole in quel di Limon, costa caraibica del Costarica.

N.d.r per i viaggiatori prossimo venturi; in fatto di accommodation a Khao Sok c'è di meglio, di tutto e di più, ma nei più fascinosi come il Rock And Treehouse o il Rainforest Resort meglio prenotare per tempo.


A quel punto c'era un solo modo per placarlo: la pizza! Downtown Khao Sok mi ricordava le main street di Manali o Calangute, in India, stesso genere di paesetto nato nel nulla con l'indispensabile per prendersi cura del turista di poche pretese e tanto spirito di avventura. Eravamo finiti in un posticino che prometteva happy hour a 99 bath, dove una ragazzetta in short e canotta masticava con gusto il suo boccone di pizza che, ci aveva assicurato, era buonissima. Il fatto che fosse quella con l'ananas, non la rendeva una testimonial affidabile, ma al beneamato era bastato. Perciò doppia Margarita per entrambi e singola pseudo Margherita per lui, che l'aveva reso più conciliante.






Il Jungle Hut aveva fatto da tramite per l'escursione al Cheow Lan Lake, un frastagliato e spettacolare lago artificiale formato dalla Diga di Rajjaprabha (per noi Ratchaprapa, come se fosse più leggibile) ovvero Luce del Regno, inaugurata nel 1987 dal re medesimo, bacino di controllo per eventuali innodazioni fatto costruire con l'intento di fornire irrigazione, elettricità e pesca, previo ricollocamento dei pre esistenti abitanti e fauna del luogo.

Per riempire i suoi 185 km2, 40 metri di profondità media, ci era voluto un anno, nonostante la portata idrica del fiume Klong Saem. Cheow Lan Lake è un posto fascinoso, circondato da colline ricoperte da una densa jungla ora abitata da tigri, elefanti, bufali, tapiri e scimmie varie, intersparso da formazioni carsiche calcaree che ricordano quelle delle più famose baie di Guelin in Cina o di Halong in Vietnam. La diga, distante 60 km da Surat Thani, l'avevamo oltrepassata per arrivare a Khao Sok. L'indomani avremmo dovuto fare il percorso a ritroso. Ma sì un'altra ora, che sarà mai?


Ormai la negatività rimbalzava tra noi due, con la sottoscritta divenuta la più prevenuta, specie quando, la mattina dopo, in ritardo, ci era venuto a prendere un driver soprappeso, bonario e trasandato, alla guida di un pulmino malandato. I nostri compagni di avventura non ci erano sembrati dei simpaticoni. I più ben disposti avevano risposto con un grugnito al nostro saluto di benvenuto. La mamma single, una tedesca bionda come il maschietto di 4 anni al seguito, non ci aveva degnato di uno sguardo. Quello della creaturina invece era stato feroce.

La francese con il fisico e l'allure di una giramondo elegante, dopo essersi avvolta nel suo pullover oversize, si era messa a ronfare senza manco salutare. La coppia tatuata di fidanzatini svizzeri sembrava impietrita. Con un atto di fede avevamo comprato a scatola chiusa l'escursione che ci avrebbe fornito vitto in pensione completa, escursioni e alloggio in una casetta galleggiante, in uno dei tanti imprecisati villaggi flottanti sparsi nel lago. Al nostro, il Chiew Larn Resort, ci si arrivava dopo un'ora di lancia spaccatimpani. Non era uno Sheraton, ma per chi si aspettava il peggio si rivelava decente.

Al bagno en suite non avevo rinunciato. Doccia e anche il WC. Già. In Thailandia ti ci devi abituare, ma dopo potresti affezionarti alla "gum bun", pistola per sederino, sistema efficace e più ecologico della nostra carta igienica. La casetta ne era provvista. E fin qui bene. Su quale fine facesse il tutto era meglio non indagare, e io non l'avevo fatto per delicatezza, ma verrebbe da pensare l'ovvio, cioè nel lago, dove i miei allegri compagni di viaggio stavano felicemente sguazzando o kayaccando, dopo essersi tuffati dal terrazzino della stanza, che aveva in verità il suo rustico fascino.

 







Beati gli ultimi, se i primi non si abbuffano. Arrivati in ritardo, il buffet del resort era stato saccheggiato dagli altri ospiti. Rimaneva del triste riso bollito, qualche striminzito spaghettino poco condito e dei pezzettini fritti e rinsecchiti di un non meglio identificato animale. Pollo? Pesce? Chissà !

Il beneamato che con i buffet ha sempre avuto un rapporto distaccato a prescindere, era stato rabbonito dalla bellezza fascinosa del paesaggio per arrivare fin qui. A tal punto che aveva deciso di affrontare il trekking fino alla cascata. Io, reclinata sulla mia chaise longue, cullata dal rollio del lago, me ne ero ben guardata.









L'escursione mi sembrava sinonimo di fatica, sudore e per di più per cosa? una cascata senz'acqua! Il beneamato mi aveva salutato con piglio da Livingstone ed era salito sulla long boat. Per due ore era sparito dai radar. Quando cominciavo a darlo per disperso (del resto gli era già successo in Amazzonia, dove era andato nella jungla con gli infradito) si era presentato a capo chino: "È stata una Caporetto!"- mi ha detto con l'aria di un cane bastonato - "Arrivato a un terzo della salita, ripida, fangosa, senza fine, dopo averla fatta a volte carponi, aggrappandomi a rami e radici, ho rinunciato. Mi sarei giocato le ginocchia. In discesa di sicuro. Un buon samaritano francese ha avuto pietà e mi ha riaccompagnato alla barca".

Ora, io dico, ma che ci vuole a dire: guardate che per fare quest'escursione bisogna essere giovani e in forma? "No! perché maggior parte si offende" mi ha detto l'imperturbabile giovane guida, che aveva il fisico di un maratoneta e che pertanto avrebbe continuato anche in futuro a far vittime.

Al crepuscolo, prima di cena, mi ero fatta convincere a partecipare al "night safari"; un sedentario giro in barca che richiedeva zero dispendio energetico. Lo scopo sarebbe stato quello di vedere gli animali. "In realtà è più probabile vederli al mattina presto", ci avevano informato serafici, una volta finito l'inutile tour, dopo che avevamo avvistato, sulla cima di un albero lontano, qualcosa che poteva essere un paio di scimmiette e disturbato un povero bufalo che stava cenando sulla riva, alquanto scocciato dall'interruzione. Radunati per cena, nel frattempo si erano formati gruppetti gregari e ridanciani, che mi avevano fatto rivalutare i nostri compagni di viaggio, facendomi ricordare che sono proprio gli incontri "on the road" a fare la differenza, a dare al viaggio "fai da te" quel sapore speciale, quel fattore che arricchisce e fa scoprire cose nuove. Finito di pranzare, e stavolta ci avevano nutrito a dovere, ci attendeva una sorpresa. .

 

Khatoey, si chiamano così, in Thailandese, i ladyboys. Nemmeno qui i trans hanno vita facile; il cambiamento di sesso non ha riconoscimento giuridico. Il nostro o la nostra, di cui non ho nemmeno provato ad afferrare il nome, dispensava bibite e caffè, e mi aveva sorpreso per quel suo rossetto carminio ostentato con naturalezza, su un viso che di femminile aveva ben poco. Lui o lei non sembrava curarsene. Dopocena, indossati gli abiti tradizionali, che mal si adattavano alla sua silhouette corpulenta, aggiunto un elaborato chignon guarnito di orchidee, ravvivato il rouge, ci aveva intrattenuto con una gestualità forzatamente ieratica, al suono della tradizionale Look Thung, musica tipica di quella zona centro occidentale. Finalmente felice.Mi commuove saperlo laggiù, a tempo pieno su quell'isolata ile flottante, lontano dal mondo.

La mattina seguente, la stakanovista tabella di marcia prevedeva dapprima un'alzataccia alle 6,45 per un altro "animal safari". Dei pochi che sono andati, nessuno ha visto, com'era prevedibile, niente. Con il rumore che fa il motore della lancia, devono essere proprio dei ficcanaso quegli animali che si fanno vedere.

Fatti i bagagli e colazione, via verso l'ultima tappa, la Pakarang Cave, che non è un posticino per gli animi deboli o claustrofobici. Il percorso si snoda al buio, nel fango, con pareti tappezzate da ragni, mentre minuscoli pipistrelli ti svolazzano intorno e qua e là, e pelli di serpente fanno sospettare la loro presenza in qualche anfratto. Siete stati avvisati.

Tornati al Jungle Hut nel pomeriggio, fatto l'upgrade in una stanza più accogliente, non ci rimaneva che riposarci in attesa del faticoso ritorno a casa a Samui, ma non prima di aver cenato e parecchio brindato, fronte fiume Sok, a lume delle torce, con i rumori della jungla in sottofondo e la lussureggiante vegetazione davanti, con i nostri allegri nuovi amici. Che difficilmente rivedremo mai più.

Chiudo con un rimpianto e l'ennesima dritta. Se mai andaste a Khao Sok, non perdetevi l'escursione, come purtroppo abbiamo dovuto fare noi perché molto faticosa e fuori della nostra portata, per vedere la Rafflesia, fiore ufficiale della Provincia di Surat Tani, così detta in omaggio a Sir Thomas Raffles, il famoso esploratore che lo scoprì. Un alieno gigante, dall'aspetto inquietante, largo anche un metro; un mostro parassita e puzzolente, color carne cruda, che emana un odore di carne putrefatta e cresce nutrendosi della pianta che lo ospita. Sembra uscito dalla Piccola Bottega degli Orrori. Non avete idea di quanto mi dispiaccia essermelo perso. Per non dire quanto il beneamato se lo sarebbe fotograficamente goduto.



(8 - fine)

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