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La Casa
del pane


Partigiani e fascisti
memorie dalla Valcuvia

Una recensione di
SILVIA GARAMBOIS

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Raccontare un paese. La guerra, i cattivi e i buoni che giocavano insieme e che si ritrovano a fronteggiarsi coi fucili in mano. Gli ebrei da far fuggire. Gli americani precipitati con l’aereo da far fuggire. Le spie dietro le tendine. Chi è in guerra e non torna. Chi torna e si nasconde. Gli amori che divampano e quelli che svaniscono tra le bombe. E i fascisti in mezzo alla piazza a mano alzata. Un paese che diventa lo specchio di mille paesi. Dell’Italia intera…


Il pane non può aspettare

di Pier Vittorio Buffa



Neri Pozza editore
19 euro

C’è un luogo centrale dove tutto passa: la panetteria. Anzi, dalla prestinaia, come si dice al nord, nel Varesotto. È lei, Innocenta, vedova di un uomo ucciso dalle botte dei fascisti, lei chiusa tra uscio e bottega, a far scorrere la storia di “Il pane non può aspettare” di Pier Vittorio Buffa (Neri Pozza editore, euro 20,00). Lei che sa. Lei motore di tutto il racconto.

È dal pane con le uvette di Innocenta, dalla “banda del fischio” – Aristide, Vincenzo, Gianernesto, Renato, Francesco, Leonardo, Enrico - che vediamo crescere la paura e la solidarietà, la resistenza e le scelte di vita contrapposte, perché non si può fare diversamente. Intanto Cabiaglio, che non è un luogo di fantasia ma un piccolo centro proprio all’inizio della Valcuvia, mezz’ora da Lugano (oggi poco più di 500 abitanti, come all’epoca narrata quando si riempì però di profughi, arrivati da Varese e da Milano). Dalle alture si vede il Lago Maggiore. Soprattutto di fronte Monte San Martino, bombardata dai nazifascisti perché nascondeva, tra le gallerie e i fortini della linea Cadorna, le brigate partigiane.

(Partigiani catturati nei boschi di Cassano Valcuvia, fotografia trovata su un soldato tedesco
foto dal sito del copmune di Cinisello Balsamo)


Buffa, quarant’anni da giornalista in quello che era il Gruppo Espresso, che a quattro mani con Franco Giustolisi (quello dell’ “armadio della vergogna”, che ha rivelato le stragi nazifasciste nel nostro Paese) ha scritto di carceri, di sopravvissuti, di confino, e ora dedicandosi al romanzo – sia pure di fatto romanzo storico, aggrappato alla realtà – scioglie nel racconto la conoscenza di quel che successe, di quel che è stato, di quelle emozioni.

“Il pane non può aspettare” – il pane che deve sfamare una comunità, anche quando non si sa dove trovare farina – è di fatto il seguito di “La casa dell’uva fragola”, dove si raccontava la Grande Guerra partendo da un ambito familiare. Anche nel nuovo romanzo si assaggiano le marmellate all’uva fragola prodotte nella casa dalle quattro sorelle, ma diventa uno degli elementi di un puzzle, dove la canonica o i luoghi nei boschi o le case in fondo alla via hanno tutti pari dignità. Solo la panetteria - il prestinaio - ne è cuore, e conosciamo le stanze in cui si dorme al piano di sopra, il forno, la rivendita, la cucina dove si bussa per confessioni, ricovero, decisioni.

Compito di lettrici e lettori è imparare a percorrere quelle strade, quei sentieri, orientarsi, entrare in quella comunità. Capire i silenzi. Capire le adesioni forzose al fascismo. Capire soprattutto chi nonostante tutto, nonostante i rischi e i pericoli veri, sfida la paura per aiutare gente sconosciuta, per attraversare quel confine con la Svizzera che è a un passo e che può significare salvezza. O per partire con i partigiani.

(Il Sacrario del monte San Martino)


Ma per quanto questo libro racconti una comunità, quella sola, anche con fonti storiche e testimoniali, è facile riconoscere come le stesse storie si siano moltiplicate nei paesi intorno, e oltre, e oltre. Basta ascoltare le parole dei militari che ritornano dopo aver attraversato mezzo Paese, o quelli che sono in fuga da campi di concentramento, che hanno trovato vestiti, cibo, aiuto via via lungo la strada. Una storia che accomuna, e per questo più coinvolge, anche chi non conosce la Valcuvia, San Martino, i valichi per la Svizzera…

C’è un altro personaggio nel libro, oltre alla potente Innocenta, che lega la comunità: il postino Isidoro. È lui che porta le lettere dal fronte, i messaggi cifrati di chi è in fuga. Le mamme e le mogli attendono con ansia il suo passaggio, corrono l’una dall’altra quando arriva una notizia. E poi ci sono le lettere che non arrivano più. Isidoro aspetta fino al 1947 (ha ormai 74 anni) prima di lasciare definitivamente l’ufficio, manca una lettera: quando arriva, la notizia è di quelle tremende, anche il marito di Angela è morto. Ma consegnare la missiva ufficiale della Croce Rossa era compito suo, l’ultimo atto.




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