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I giorni
di Vetro


Donne nella peste della guerra

Una recensione di
ANDREA ALOI

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Castrocaro di Romagna, anno 1924. Redenta, figlia di Primo, un fascistone custode alla villa del conte Morelli e dell’Adalgisa che vende lupini al mercato di Santa Maria, è nata morsicata dalla scarogna e dalla miseria. Almeno lei, dopo Goffredo, Tonino e Argia, fratelli-fantasma venuti al mondo e morti in un fiat, si sarebbe meritata una piccola festa, ma Primo voleva il maschio da offrire alla Patria e al Duce. A Redenta la “festa” la farà presto una poliomielite, regalandole una gamba ritorta e un fatalismo tenace, non esente da saggezza: “Il male che patisci una volta lo patisci per sempre”. Iris, nata nel ’23, figlia di un contadino a schiena dritta e della maestra pioniera progressista arrivata lassù a Tavolicci, vicino a Verghereto, per disboscare la zona dall’analfabetismo, le gambe le ha buone, è bellina, pronta a seguire le orme della madre, finché non coglie l’occasione di andare nel Cittadone, a Forlì per lavorare in una famiglia di marchesi. Sono noti antifascisti e lei presto si vota alla Causa.


I giorni di Vetro
di Nicoletta Verna


Einaudi editore
20 euro

Redenta e Iris, la mite claudicante di solenne ignoranza e l’elegante ribelle intrisa di buone letture, due memorabili vite difformi destinate a unirsi per sempre, raccontano in prima persona alternandosi nei sei drammatici capitoli di “I giorni di Vetro” (Einaudi, 344 pagine, 20 euro) firmati da Nicoletta Verna, robusto e a volte truce romanzo abbastanza chiacchierato causa l’esclusione dal novero dei finalisti allo Strega (Andrea Bajani con “L’anniversario” è il favorito, il 4 luglio la premiazione). Tutta pubblicità, in fondo, aizzata pure dalla perorazione in favore della scrittrice forlivese di Nicola La Gioia, ex direttore del Salone del Libro di Torino e voce di autorevole onestà intellettuale.

Il Vetro con la maiuscola richiama uno più fulgidi bastardi inventati per la pagina scritta, un laido demonio, al secolo Amedeo Neri, alto, elegante, morbida voce. È stato centurione della milizia fascista nella criminale guerra d’Etiopia del ’35 e complice del commilitone Primo, arido padre di Redenta, nell’omicidio di una povera bambina diventata sua schiava sessuale (per referenze sulle abitudini in terra africana di noi “italiani brava gente” citofonare Indro Montanelli). E si è conquistato il soprannome e una medaglia d’oro dopo aver immolato un occhio per difendere il viceré genocida Graziani da un attentato. L’orbita vuota è stata riempita da un manufatto d’alto artigianato a spese del Fascio e non nuoce al bieco appeal del gerarchetto. In un romanzo che procede per coppie oppositive, lungo percorsi e intrecci che sembrano dare al Fato una nitida geometria, Vetro ha fiero avversario nel giovane Bruno, antagonista in chiaroscuro tanto quanto lui è un perfido vilain lucidamente tenebroso, emblema fin troppo fosforescente del Male Assoluto.

Bruno, fratellastro di Redenta, è stato operaio addetto a tirar su i fanghi salsoiodici per le terme alla Bolga di Castrocaro, poi è passato alle dipendenze dei marchesi odiatori del Duce a Forlì. Ancora ragazzino aveva difeso Redenta a suon di pugni da ogni presa in giro, da giovane adulto, dopo l’8 settembre, si calerà nei panni del temuto Diaz, guida coraggiosa fino all’incoscienza di un gruppo partigiano. Per lui, “al di fuori della giustizia non c’era niente”. In montagna con Iris è amore, in totale dedizione per lei, con toni sfuggenti per Bruno, orientato sempre e solo verso le azioni più disperate. Verna nel libro appoggia le vicissitudini dei due ragazzi - tali sono e si stanno giocando la vita per dare un futuro decente all’Italia - sulla storia della Resistenza e delle rabbiose repressioni nazifasciste in quell’angolo di Romagna, specificando in una nota finale: “La violenza che ho raccontato in queste pagine è avvenuta spesso in forma diversa, ma è del tutto vera”.

Si va dal fallito attacco ai gerarchi riuniti al Grand Hotel Terme di Castrocaro il 25 settembre del ’43 per sancire la nascita della Repubblica di Salò all’eccidio di Tavolicci, sessantaquattro morti tra cui diciannove bambini, l’intero paese condannato a morte per rappresaglia dopo un duro scontro che aveva causato gravissime perdite a un reparto tedesco. La strage più efferata in Romagna, opera delle SS italiane. Fino al regime di terrore imposto dall’arrivo a Castrocaro del battaglione M IX Settembre, comandato da Vetro. Che troviamo sorprendentemente sposato con Redenta. Proprio lei, la “stroppia”, addirittura invidiata per la sistemazione di prestigio, costretta a supplizi quotidiani e stupranti da un maschio sadico. Sono pagine difficili da deglutire e però funzionali nel tratteggiare un clima di tempeste emozionali in cui la pulsione di morte vince su tutto e a tutto spinge. Partigiani e codardi, traditori capaci di vendere ai nazi gli amici d’infanzia, gente solidale pronta a dividere un tozzo di pane e camicie nere irriducibili. Redenta, muta per un bel po’ di anni dopo la nascita, in compenso sa pensare: “…La gente nelle sventure, è di due razze: quella che gli si smuove la pietà, e quella che tira fuori la carogna. Nessuno resta com’era”.

“I giorni di Vetro” contiene molte cifre narrative, il mélo, le agnizioni da romanzo d’appendice, il thriller, la rievocazione storica. Si fa leggere con una certa avidità e nel primo, esteso e più felice capitolo, “Giovinezza”, convince con una brillante, sentita immersione, ambientale e linguistica, nel più puro esprit romagnolo anarchico, anticlericale, le radici ben piantate nella terra, genuinamente popolare. Come fossimo in una versione dark dello scintillante memoir “Nel paese di Tolintesàc” di Cristiano Cavina, Verna regala un’epica dolente del quotidiano dove la donna è la rezdora, colei che manda avanti la baracca e mica si fa pestare troppo i piedi, tipo l’Adalgisa, pronta a mollare una coltellata a Primo quando non aveva voluto onorare la promessa di matrimonio. O la di lei genitrice, la Fafina, infermiera: “Lavorava di giorno e anche di notte, di giorno con i malati di mente e di notte con le veglie dei morti, perciò mia madre” racconta Redenta “doveva badare ai bastardi che l’orfanotrofio delle Orsoline mandava alla nonna perché li allattasse a cinque lire la settimana” .

Vita grama all’ombra del campanone e della rocca di Castrocaro per la purina (poverina) poliomielitica e le sorelle Marianna e Vittoria, spazi angusti nel casone, abitato da altre famiglie, per i bisogni di tutti un capannotto con “un odore che scendevano giù le lacrime”. La fame? Sì, da “gatti selvatici”. E la paura che qualcosa o qualcuno possa bagattare (rovinare) anche quel poco.

Nicoletta Verna restituisce vividamente il dire di Redenta, un pastiche di italiano intriso di voci dialettali. Invornito, imbariago, braghira. Strolgare, borbognare, zavagliare, pirullare. Il contesto rende quasi sempre superflua la traduzione, grande è il gusto di scoprire motti arguti e lapidari: “Un buon marito vale più di cento vacche”, “donna pipenta (che fuma) o che l’è ‘na vaca o che la diventa”, “la legge è come la pelle della maletta (il “pacco” maschile), la si può tirare per tutti i versi”. Fino al “faticare come una bestia solo per far cagare il culo” dove emerge una corporalità e un parlare “basso” e grasso incarnito nella tradizione popolare e contadina, tramandato da secoli nei paesi tra fiere e carnevali. Sfoghi liberatori, impertinenti, eversivi che un grande studioso, Michail Bachtin, ha censito e incardinato in “L’opera di Rabelais e la cultura popolare”: il Rinascimento francese si lega alla Romagna contadina del secolo scorso senza soluzione di continuità, in nome della penuria e di un eterno Quarto Stato sottomesso.

Nei capitoli in cui voce narrante è Iris, prevalgono per contro pensieri aggrovigliati, talvolta riportati sulla pagina in modi sentenziosi, faticosi. Si trova alla macchia insicura dell’amore di Bruno-Diaz e di sé. Combina guai nel corso di un’azione, esita a uccidere, impara a farlo smitragliando un soldato tedesco preso prigioniero. Per riscattarsi agli occhi dell’amante e comandante punta al rapimento di Vetro, pensa di circuirlo presentandosi come una prostituta di classe ed estimatrice dei nazi con tanto di “coccarda di tessuto bianco con in mezzo una svastica di smalti neri e rossi”. La sorte, complice un ignobile tradimento, non le è amica, rimedierà Diaz, pagando un prezzo alto. Lì, in casa dell’efferato torturatore avverrà l’incontro con Redenta.


(Una colonia fascista in Romagna)



È l’inverno del ’44, Castrocaro piagata dai bombardamenti, dai lutti e dalle deportazioni prova a sopravvivere, ci si ritrova a gruppi sotto tetti di fortuna in perenne compagnia di una fame da impazzire, con madri che in sogno si mangiano il figlio disperso in Russia. E si dà credito a una veggente che preconizza i bombardamenti interpretando i grugniti dell’unico maialino non ancora - per poco - macellato. Manco si fosse ai tempi delle carestie e della sottoalimentazione cronica tra Quattrocento e Settecento in Europa, raccontate da Piero Camporesi nel suo “Il pane selvaggio”. Invece era la coda velenosa della seconda guerra mondiale, la distruzione armata coi suoi immutabili funebri corredi e carestie ce ne furono davvero, una particolarmente atroce a Milano. La guerra è la peste.

“I giorni di Vetro” si chiude a conflitto esaurìto, dei tanti personaggi qualcuno non l’ha scampata, altri sì. Nel cimitero di Castrocaro ci si aggira come ombre: “Qui è dove tutto termina, dove cessano le sofferenze. Dio li perdona e loro perdonano lui”. Tante sono le cicatrici da far accantonare il sollievo e da non riuscire a dipingere un futuro coi colori di un’alba nuova, quasi, dopo tanto dolore, restasse in mano ai vivi il resto di niente. Nicoletta Verna ha cercato in uno sguardo spietato e in un coro di presenze femminili messe alla prova da una tragedia indicibile il nerbo del romanzo chiamato a durare e, a parte rare discontinuità di passo, l’ha trovato.




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