L'amore
in gabbia
Storia di diritti di serie B
Una recensione di
ROBERTO ROSCANI
Si comincia a leggere “L’amore in gabbia”, il nuovo libro di Donatella Stasio, pensando al tema: quello spinoso della affettività e della sessualità in carcere. Donatella Stasio ha lavorato a lungo – dopo una onorata carriera nei quotidiani – come responsabile dell'ufficio stampa della Corte Costituzionale. E notoriamente la Corte si è occupata della questione decidendo che quello dell’affettività dei detenuti è un diritto costituzionalmente tutelato. Una sentenza ignorata e ostacolata per 15 mesi poi finalmente attuata, anche se con linee guida che scoraggiano invece di incentivare (insomma: il segnale c'è ma la strada è ancora lunga e in salita). “Il tema non è sentito dalla gente”, direbbero nella maggioranza di destra come hanno detto per i referendum appena passati (e perduti per mancanza di quorum). I detenuti sono un argomento difficile, non piacciono a nessuno, un po’ come gli zingari, gli immigrati “illegali”, gli stranieri. Insomma: gli altri. La Corte Costituzionale continua a stare qualche passo avanti rispetto alla politica. E speriamo che ci resti.
Insomma si comincia a leggere pensando a un libro sui diritti, un testo politico (magari anche un po’ giuridico) ma sostanzialmente freddo. È il contrario. “L’amore in gabbia” è il racconto quasi in diretta della vita di un detenuto e colpisce come uno schiaffo. Non per le ragioni che potremmo immaginare (nessuna violenza in carcere, almeno non quelle che vediamo nei film americani, nessuna cupa disavventura, anzi perfino una “redenzione”) ma semplicemente perché è una storia vera di sentimenti prima ancora che di reati di un ragazzo che perde il padre a sei anni e vede sfaldarsi il mondo degli affetti infantili. Resta con una madre - e due fratelli più grandi – che si fa in quattro per portare a casa i soldi e andare avanti ma che non riesce neppure ad abbracciarlo. In questo vuoto fisico e sentimentale, tra le strade e le case popolari di Quarto Oggiaro, in questa “Dark side of the Moon” della Milano da bere degli anni Ottanta. Da una parte i soldi, la moda, il business. Dall’altra il piccolo spaccio, la rete della coca, i grandi affari criminali. Qui questo ragazzo diventa prima un pusher quindi uno “spaccino”, quindi un tossicodipendente. In fondo alla strada c’è la galera.

L'amore in gabbia
- La ricerca della libertà
di un reduce dal carcere
di Donatella Stasio
a cura di Daniela Padoan
Castelvecchi editore
18,50 euro
Il carcere, a più riprese ma per un periodo di oltre 10 anni, sarà la vita di Gianluca (nome non di fantasia) tra i primi passi in un riformatorio alle celle buie e sporche di Busto Arsizio e quelle ancora più tetre di Fossombrone (carcere speciale, da isolamenti e 41 bis in cui finisce per punizione) fino alla svolta di Bollate. Bollate è un “carcere modello”. Ma la definizione è sbagliata, perché se fosse davvero un carcere modello piano piano anche le altre carceri si sarebbero adeguate. Diciamo che è un carcere “specchio”: è l’immagine di come la struttura detentiva di un paese per bene dovrebbe essere: lavoro, studio, attività come il teatro, un grande lavoro di ricostruzione del rapporto tra i detenuti e “quello che c’è fuori”. È una esperienza che cambia. Gianluca quando usciva dagli altri istituti di pena tornava semplicemente a fare quello che faceva prima. E il nuovo arresto era dietro l’angolo. Quando esce da Bollate cambia vita.

La storia qui ha una piega che vale la pena di esser raccontata. Un amico, quasi un fratello che lo ha aiutato quando era dentro gestendo un gruzzoletto comune, chiede il suo aiuto. La logica del passato lo avrebbe costretto a ricominciare la vecchia vita, adesso sceglie di aiutarlo nell’unica maniera possibile: gli regala tutti i soldi ma crimini basta. I fratelli si aiutano, sarebbe impossibile non farlo, ma neanche questo può farti rischiare di tornare in carcere.
Il racconto è diretto, fatto in prima persona, senza infingimenti. “Chissà che alla fine non mi sentissi più al sicuro in quella cella che fuori. Forse ero arrivato a un punto tale per cui sapevo che da un giorno all’altro sarei potuto morire schiantato con un’auto contro un muro, alla massima velocità, fatto di coca. Quando mi hanno preso, forse avevo anche la sensazione di averla scampata. Avevo paura, molta, ma al tempo stesso mi sentivo al sicuro, chiuso in quella scatola di cemento. E pensavo: qui dentro non dovrebbe uccidermi nessuno”. E più avanti: “Fossombrone mi ha fatto sentire ancora più solo di quanto già mi sentissi, ha scavato un baratro emotivo, e quando sono uscito ho ricominciato peggio di quand’ero entrato. Spacciavo di tutto e mi drogavo come un animale”.
“L’amore in gabbia” non è solo il racconto del carcere. Paradossalmente, chiuso dentro una cella Gianluca appare un giovane “super controllato”, che vive seguendo regole non scritte paradossali ai nostri occhi: quando si incontrano i familiari, anche la fidanzata, non si deve abbracciarla o baciarla intensamente per 'non offendere' gli altri detenuti e i loro parenti nelle sale dei colloqui. Il desiderio fisico è annullato, persino la masturbazione ha regole ferree. “In carcere, il corpo sprofonda nell’analfabetismo e nell’ignoranza. E non basta allenarlo fino allo sfinimento per ridargli la vita, non basta farlo diventare statuario per sentirne i contorni”.
Questa “diseducazione sentimentale”, questo azzeramento del corpo quando si è dentro al carcere coincide con il “caos sentimentale” di quando si è liberi. La detenzione lascia un imprinting di confusione dei sentimenti, di caos emotivo in cui si consumano i rapporti con le ragazze, con le quali non si riesce mai a creare un rapporto sopportabile.

Rispetto alle intenzioni con cui nasce il libro, Gianluca per paradosso non capisce neppure la logica della sentenza della Corte sulla sessualità dei detenuti. I giudici chiedono che negli istituti di pena vi siano spazi di privacy garantita e di possibilità di espressione della sessualità. Gianluca è talmente lontano nella sua esperienza della reclusione da non capirlo neppure. “Durante gli anni in carcere non ricordo mai di aver provato una vera e propria astinenza da sesso. La modalità nella quale entravo era di accettazione della privazione di ogni affetto e contatto. Punito, mi autopunivo. Ho sempre vissuto il carcere come luogo di pena quale è, senza discussioni… Come si fa a fare l’amore in luogo privo di amore? Se il luogo non ha senso, se è vuoto e privo di significato, perché dovrei creare o alimentare un amore? Il carcere non è il luogo adatto, per quanto mi riguarda. Mai chiederei alla persona amata di sottomettersi a quest’ennesima pena. Mi vergognerei a trascinare una creatura meravigliosa lì dentro, dove già è penoso parlare, figuriamoci amarsi fino in fondo. Impossibile. Meglio la solitudine”.
Credo che questa totale rinuncia da parte di chi del carcere ha una esperienza diretta e bruciante sia la prova più forte della necessità che l’indicazione della Corte sia davvero necessaria. Dire di no sarebbe – uso le parole di Donatella Stasio – "Bullismo istituzionale", come se certi diritti fossero "di serie B perché riguardano persone di serie B, minoranze per le quali non vale la pena di stracciarsi le vesti".
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