La Resistenza
mai raccontata
Fosse ardeatine, lotta di donne
per la memoria dei martiri
Una recensione di
SILVIA GARAMBOIS
C’è stata una Resistenza mai raccontata, senza bombe e fucili, quella delle vedove e degli orfani dei 335 martiri delle Fosse Ardeatine che sono riuscite, sole col loro lutto, a sconfiggere un “processo alla Resistenza” che, infervorato dalle strumentalizzazioni per l’attentato di via Rasella, oscurava le battaglie dei loro mariti, figli, padri, trucidati nelle cave. Morti che tutti volevano celare, ormai più nulla se non liquami, pelle nera, qualche lettera, brandelli di stoffa in due grandi mucchi di carne umana.
Sono state loro a trasformare lo scempio delle anime nel più grande monumento nazionale alla Resistenza, simbolo dell’eredità sofferta dell’antifascismo. Restituendo la dignità di persone e gloriosi combattenti a corpi che si volevano solo coprire, interrare, dimenticare dietro una lapide. A raccontare la loro storia è Michela Ponzani, docente di storia all’Università di Roma Tor Vergata, in “Donne che resistono” (Einaudi, euro 23,00, 157 pagine seguite da un corposo numero di note). Un libro in presa diretta, dove il racconto è affidato a queste donne, queste figlie, questi nipoti. A ciglio asciutto. Che non è quello del lettore, alle prese con racconti che troppo da vicino ricordano le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza” e si fanno insopportabili nella normalità dell’orrore: qui, condannate al lutto, sono le vedove e gli orfani, che inchioderanno nei tribunali i responsabili nazisti, guardandoli negli occhi.

Donne che resistono
di Michela Ponzani
Einaudi editore
23 euro
Di molte vittime delle Ardeatine conosciamo la storia. Ma qui ci sono tutte, quelle famose, colte, che hanno lasciato insegnamenti (pensiamo a Pilo Albertelli, a cui è stato dedicato il liceo in cui insegnava a Roma) e quelle che difficilmente incrociamo, come il ferroviere di San Lorenzo che aveva liberato i prigionieri dal carro destinato ai campi in Germania. Insieme nelle cave. Con quel ragazzo di 19 anni di cui la madre conservava una ciocca di capelli bianchi: era stato tra gli ultimi ad essere ucciso, aveva assistito per ore allo sterminio, sbiancati anche i capelli di fronte all’abominio. Non ce n’è una di queste storie che non arrivi dritta a colpire lettrici e lettori, non una dei martiri, tutti uomini, non una delle donne che li hanno aspettati, che portavano al carcere vesti pulite per ritirare quelle insanguinate dei mariti torturati, che ne hanno voluto riconoscere i corpi ormai sfatti, accarezzare crani, restituire dignità.

Per molti si conoscono le spie che li hanno condannati, dalle liste preparate dai fascisti in carcere ai vicini di casa che denunciavano per poche lire, o persino arricchiti da un vero lavoro di delazione sistematica. Tutti liberi, tutti graziati ai processi. Tutti con nome e cognome. Con questo libro entriamo in un mondo di vergogna di uomini ridotti a ombre nelle carceri fasciste, con le ossa fratturate e i volti devastati (figlie che non riconoscono il padre), ma anche a contatto con la forza del proprio impegno ideale, che faceva tutto sopportare. Tra questi Maurizio Giglio, tenente di 23 anni, infiltrato nella Divisione di polizia sui sorvegliati politici, arrestato su delazione insieme alla sua compagna e subito torturato perché rivelasse dove si erano nascosti Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, evasi da Regina Coeli. Giglio non parla, nonostante gli strappino le unghie dei piedi una a una, non parla, nonostante i calci nei testicoli e tra i reni e la colonna vertebrale. Lo porteranno alle Ardeatine in barella. Il presidente Pertini più volte lo ha ricordato: “Kappler e Dollman chiedevano il nome e l’indirizzo, e Maurizio si rifiutò di parlare, pur sapendo dove eravamo”. E non parla nessuno davanti alle torture, sempre più dure, anche se da tutelare non ci sono compagni famosi, ma compagni di lotta.

Le storie delle donne rimaste sole, disposte ai lavori più umili per mantenere i figli, malviste e indigenti, sono tutte storie di grande dignità: non scorrono lacrime, per tutelare i figli da nuovo dolore. Sono tutte storie diverse e tutte uguali. Un corteo di donne che ogni sabato dopo la liberazione va alle cave a impedire che una colata di cemento nasconda quel che è stato (sanità pubblica: gli odori che emanano dalle fosse sono insopportabili in tutta l’area), che pretende che le storie di ognuno siano riconosciute con degna sepoltura. E che rimangano insieme. Lì. Per nostro monito.
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