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Ombre rosse
su sentieri
selvaggi

Il mondo secondo John Ford

Una recensione di
ANDREA ALOI

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“Il mondo secondo John Ford”, nuova vertiginosa immersione nella storia del cinema firmata da Alberto Crespi (pubblica Jimenez, 20 euretti ottimamente spesi per 272 succose pagine) è una dichiarazione d’amore e di intenti. D’amore per il sommo regista americano e le sue opere, una fenomenale miriade sciorinata dai cortometraggi del 1917 ai capolavori della più che maturità: “L’uomo che uccise Liberty Valance” è del ’62 e Ford aveva quasi settant’anni. Una quintessenza tutta fordiana di tecnica, classicità e sperimentalismo, una “ariostesca armonia” - così l’Autore - di romantico, avventuroso, comico.

E dichiarazione di intenti per la schiettezza con cui Crespi ci apre le porte della sua officina critica, guidata dall’attenzione ai contesti storico-produttivi in cui si fabbricano i film, al loro ethos - cioè, pensando umanisticamente, a quale guida interiore risponde chi fa cinema -, alle relazioni tra attori, registi, produttori e musica e letteratura e pittura lungo una storia, si parli di Nouvelle Vague o di commedia all’italiana, Kubrick o Lubitsch, che per questo cultore divertito e “munifico” coi lettori non ha segreti. Comprese punte di virtuosismo assoluto per il cinema sovietico e per il western.


"Il mondo secondo John Ford"
Alberto Crespi
Jimenez editore
euro 19

Cowboys e indiani, allora. Tanti bambini degli anni Cinquanta e Sessanta sono partiti da lì, anche Alberto. Ford l’ha catturato con “Il massacro di Fort Apache”, la Monument Valley, l’abbraccio di storia e leggenda in una epica visionaria con pochi eguali. L’ha spinto alla “missione folle e disperata” di questo gioiello di carta.





Per attraversare con successo il mare magno del suo Nume cinematografico, Crespi ha cadenzato il libro in undici “quadri” o momenti, che prendono abbrivio da altrettanti personaggi o temi narrativi presenti in “Ombre Rosse”, il signature dish del regista, e da lì scorrono in alvei ora rivisitati ora riscoperti, discussi, illuminati. Così il Ringo Kid di John Wayne apre la disamina dell’Uomo Fordiano, mai eroe tutto d’un pezzo ma figura problematica, a partire dal primo leading man fordiano ai tempi del muto, Harry Carey, uomo del West ruvido e “senza un grammo di glamour”, per arrivare ai lonely men, i solitari per eccellenza, dal “buon” fuorilegge Ringo Kid all’inconciliato, tormentato Ethan Edwards di “Sentieri Selvaggi”, magnificamente caratterizzati da John Wayne. Che poi, solo tentare di rendere l’idea di tutti i mondi incrociati e paralleli visitati da Crespi, capitolo per capitolo, è puramente velleitario.

Per dire, Wayne campeggia anche in “Rio Bravo” nei panni del tenente colonnello Kirby Yorke, ma siamo subito depistati sul caporale Tyree interpretato da Ben Johnson, solitario in fuga per scelta ed eroe di ventura, “prototipo mitico dell’Uomo del West, libero e selvaggio”. Johnson, nato nel ’18 in Oklahoma, nella riserva degli Osage (giusto loro, il popolo di nativi al centro del gioiello di Scorsese “Killers of the flower Moon”), figlio di un bianco e di una cherokee, si era inserito a Hollywood come campione di rodeo ed era stato notato da Ford nel “Massacro di Fort Apache”, dove era la controfigura di Henry Fonda, il cocciuto colonnello Turner, e aveva salvato altre controfigure travolte da un carro. Il regista lo aveva premiato con un contratto di sette anni come attore: Ford era generoso, riconoscente, allergico alle mentalità sclerotiche, agli ideologismi e alla censura. Un uomo dalla schiena dritta, tanto che Ford sembra quasi lui stesso un altro eroico uomo fordiano.



Ombre rosse


Visto? È un libro così pieno di rimandi, collegamenti e radici che ci si perde. E Francis Ford, fratello maggiore di John, pecora nera della famiglia poi diventato regista e attore? Nessuno ne parla, ci pensa Crespi. E racconta di quando aveva trovato un ingaggio, nel 1909, presso la G. Méliès Manufacturing Company a Brooklyn, una “fabbrica” di western realizzati a Fort Lee nel New Jersey. G. Méliès, il nome non vi dice qualcosa? Il boss era Gaston Méliès, fratello di Georges, uno dei padri nobili della settima arte. “This is the West Sir. When the legend becomes fact, print the legend” dice in “L'uomo che uccise Liberty Valance” un giornalista al senatore Ransom Stoddard/James Stewart, che in quella elegia western si ritrova in compagnia di John Wayne e Lee Marvin, John Carradine, Vera Miles, Edmond O’Brien: un discreto cast… Il West coltiva leggende, ma qualche volta oltre ai fatti è vera anche la leggenda.



Sentieri selvaggi


Dopo l’Uomo, ecco la Donna Fordiana, simboleggiata dalla prostituta Dallas di Claire Trevor, mal tollerata da occhi perbene sulla diligenza di “Ombre rosse”. In esergo la battuta di Nora/Barbara Stanwick nel fordiano “L’aratro e le stelle” del 1936: “Voi combatterete, ma le donne resteranno a piangere”. E, tra guerre civili, regolamenti di conti e qualche “Sfida infernale” (made by Ford nel '46), è già detto molto. Come nel monologo alla fine di “Furore” (sempre Ford, altro splendido lavoro del '40: capito con chi abbiamo a che fare?) recitato da Jane Darwell nel ruolo di Ma Joad, la mamma di Tom/Henry Fonda, fiera resistente umana nel dramma della Grande Depressione: “Un uomo vive, diciamo, a strappi, una cosa dopo l’altra. Un bambino nasce, qualcuno muore, è uno strappo. Ti fai una fattoria, la perdi: un altro strappo. Con una donna è tutto un flusso, come una corrente. Ci sono le cascate, ma il fiume, lui va sempre avanti. La donna guarda la vita così. È quello che ci rende forti. I ricchi vengono, e muoiono. I loro figli non valgono nulla e muoiono. E noi continuiamo ad arrivare. Noi siamo la gente che vive. Non ci possono spazzare via, non ci possono sconfiggere. Andremo sempre avanti perché noi siamo il popolo”. Parole che misurano speranze nell’America rooseveltiana.

Poi si passa all’Irlanda con Josiah Bone, medico a gomito alto reso con gran mestiere da Thomas Mitchell, attore che avrete visto in mille film, c’è la foto, ecco è lui, mentre nel capitolo proprio dedicato all’Alcol spetta a Samuel Peacock, rappresentante di liquori, introdurre il tema. Lo interpretava Donald Meek, altro supervolto di Hollywood cui ora darete un nome e un cognome. Irlanda dunque, da cui la famiglia di Ford era partita verso l’America e che lui in persona non aveva mai visto, ma, dopo il viaggio di quattro giorni nell’autunno del’21, diventa patria, casa natale immaginaria. Crespi a quel viaggio dedica complice attenzione, per poi raccontare l’irishness di Ford in “Un uomo tranquillo” (1952), “La lunga linea grigia” (1955) e Storie irlandesi” (1957). Irlanda divisa, il sogno di una riconciliazione, il bisogno dell’utopia. Anche questo è Ford.



L'uomo che uccise Liberty Valance


Dopo capitoli dedicati al rapporto tra il regista e la Guerra, la Legge, la Guerra, la Politica (anche quella sindacale, a partire dal famoso intervento del regista alla storica assemblea nell’ottobre 1950 della Screen Directors Guild, che ha scolpito nel tempo la sua frase, spesso mal citata e qui proposta in versione originale: “My name is John Ford. I am a director of westerns”), si chiude con gli Indiani e la Monument Valley. Per quanto attiene ai primi ecco subito corretta la vulgata: fin dagli anni ’50 in “L’amante indiana” di Delmer Daves e “Il passo del diavolo” di Anthony Mann i nativi sono personaggi pieni, individualizzati, benché interpretati da attori bianchi (vedi il Cochise di Jeff Chandler), ma western “filoindiani” esistevano già ai tempi del muto. Un’altra puntualizzazione: “Ombre rosse” è in parte girato alla fine degli anni Trenta in terra Navajo, in Arizona, e Ford dà lavoro (come comparse, attrezzisti, autisti, falegnami) a molti Navajo bastonati dalla Depressione, eleggendo l’unico motel della Monument Valley a base logistica per diversi film.

Ford generoso, sì. Che comunque non ha scoperto cinematograficamente le torri ossidate della sacra vallata, il primo film in cui appaiono è “Stirpe eroica” di George B. Seitz del 1925, un western “etnografico”, “Ombre Rosse” arriva tredici anni dopo. E nella troupe c’è uno stuntman, il più grande di tutti, protetto dai suoi Dei personali. Si chiama Yakima Canutt, andate a rivedere cosa riesce a fare gettandosi, da coraggioso apache, sui cavalli della diligenza che corre lungo il Lucerne Dry Lake. Spaventando tutti, regista compreso. Monument Valley e poesia di Ford, “Ombre rosse” e il suo stile che va oltre la classicità hollywoodiana e mostra altro, spazi aperti ma pure sequenze notturne espressioniste.





Un cinema di poesia. Crespi cita Bazin, Pasolini, Orson Welles per spiegare, inquadrare criticamente, senza manco un briciolo di accademismo. Quando evoca il “perturbante” freudiano sa di cosa parla e così per Michail Bachtin e il comico, l’alto e il basso, la cultura popolare o per lo scrittore John Cheever, che ci porta al “Sol dell’Avvenire” di Nanni Moretti. Come? Leggete e saprete. Da relazioni note a relazioni ignote sulle ali dell’immaginazione metaforica, così scriveva il seicentesco Emanuele Tesauro nel “Cannocchiale aristotelico” e mette in atto alla lettera Crespi in questo libro di sentieri selvaggi, panorami nascosti, epopee americane, reperendo legami, fili, associazioni visive, genealogie culturali. Il menu offerto da “Il mondo secondo John Ford” è finissimo, affettuoso, “connivente” col lettore. Forse il suo libro più personale, più intimo, dopo “Storia d’Italia in 15 film” e “Short cuts. Il cinema in 12 storie”, entrambi pubblicati da Laterza, non meno divertenti e degni di altrettanta meraviglia per dottrina, calviniana leggerezza, acume.




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