Il ritorno, l’agognato nostos.
Itaca.
Solo scrivere questo nome mette i brividi.
Poeti, cantastorie, letterati. Tutti hanno scritto di quest’isola discreta che affiora con dolcezza
dalle acque diafane dello Ionio.
Associare l’Itaca di Omero all’odierna Thiaki (l’Itaca moderna)
verrebbe quasi naturale. Sia per la sua posizione geografica e sia soprattutto per assonanza semantica.
Le cose però stanno veramente così?
A dire il vero, ad oggi, non esiste pieno accordo tra gli studiosi e i commentatori. Regna infatti ancora il dubbio
se l’«isola petrosa», patria di Ulisse, debba essere identificata in Thiaki, Leukas, Corfù o Cefalonia, la più grande
delle isole Ionie, davanti alla costa occidentale greca.
A scoraggiare l’identificazione Thiaki/Itaca è la circostanza legata agli scavi archeologici che non hanno restituito quasi nulla se non evidenze datate tra il IV-III sec. a.C., quindi molto avanti rispetto all’epoca omerica.
Affidiamoci, ancora una volta, alle parole di Omero.
Il poeta, a proposito della patria di Odisseo, dice che l’isola
«
giace nel mare vicino al continente, l’ultima verso l’oscuro (occidente); le altre (isole) invece stanno in disparte,
verso l’aurora (oriente) ed il sole (mezzogiorno)...
».
Questa descrizione non si adatta a Thiaki ma all’isola vicina, la grande Cefalonia, rispetto alla quale Thiaki e Zacinto si trovano
effettivamente ad est e a sud. Sempre Cefalonia, e non Thiaki, ha un’
«
imponente montagna ed è ben visibile da lontano
».
Cefalonia, con la sua altitudine fissata a 1628 metri sul livello del mare, è l’isola più alta delle Ionie ed è visibile ad una distanza di 125 km. Senza considerare il fatto che sia nell’Iliade che nell’Odissea viene riportata la notizia secondo cui Ulisse, così come suo padre Laerte, regnavano già da tempo sui Cefaloni.
È probabile pensare a questo punto che il regno del figlio di Laerte comprendesse la più grande delle Ionie, Cefalonia appunto, e anche la vicina e piccola Thiaki. Se le cose dovessero stare davvero così la capitale del regno di Ulisse andrebbe cercata nelle antiche rovine di Krane che dominano la baia di Argostoli, l’odierna capitale di Cefalonia.
Sappiamo da Omero, però, che il palazzo di Ulisse si trovava più in alto rispetto alla città. Un’indicazione che porrebbe la rocca di Ulisse sul Monte di San Giorgio che domina la piana di Livatho dove è stata rinvenuta la necropoli di Mazarakàta.
Al di là della sua identificazione la vera natura di Itaca risiede nell’essere un non luogo.
È come uno spazio dove ognuno, con i propri ricordi, può ricostruire il proprio ritorno, la propria casa.
Che sia in pianura, su un’alta montagna o in collina, questo luogo è un po’ come una patria dove approdare con qualsiasi nazionalità.
Un porto sicuro dove chiunque può trovare ospitalità.
Sarà per il mito, per i racconti di Omero, per gli occhi di Ulisse che dall’alto della rocca fissano ancora con orgoglio armenti,
greggi e vele nere ma l’emozione si fa più forte nel silenzio millenario di valli e rocce bruciate dal sole di Grecia.
Itaca sana e guarisce, aiuta a ritrovarci dalle tempeste e dagli affanni della vita. Ricorda, sulla scorta dei versi struggenti di Kavafis,
che lo scopo dell’esistenza non è la destinazione ma il viaggio stesso. La crescita, umana e spirituale, non si raccoglie alla fine
ma durante il percorso.
In questo senso Ulisse e i suoi viaggi sono emblematici. Ed è per questo che Itaca rappresenta il sigillo alla nostra condizione
di uomini sempre in viaggio, accesi da quella curiosità che da milioni di anni ha spinto la nostra specie verso i traguardi più incredibili.
Ma l’ultima immagine che Itaca restituisce, ora che questo viaggio nell’Odissea e nella mente di Omero volge al termine, è la rocca di Argostoli.
L’alta torre che avrebbe ospitato il palazzo di Ulisse.
In cima, col freddo pungente che stuzzica la faccia e screpola i muri bianchi cancellati dal sole, mi sovvengono alcuni versi di Guccini. Non quelli della meravigliosa Odysseus ma di un’altra canzone a torto ritenuta minore. Nell’ultima strofe di Bisanzio il cantautore fa dire a Filemazio, protomedico e astronomo, queste parole:
«Lucifero è già sorta e si alza un po’ di vento.
C’è freddo sulla torre, o l’età mia malata.
Confondo vita e morte e non so chi è passata.
E copro col mantello il capo e più non sento.
E mi addormento. Mi addormento. Mi addormento».
Nell’ora che annuncia la fine di ogni cosa Itaca è ristoro per gli occhi stanchi.
Infonde serenità a chi, dopo mille traversie, è arrivato finalmente a casa.
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