È lì che mi fissa, con gli occhi sbarrati, mentre punta l’arpione minaccioso contro di me. Il bianco dei corpi in marmo squarcia l’oscurità tutt’intorno. Un sibilo di terrore e morte aleggia ovunque, fischia nel silenzio della sala, entra nelle ossa e percuote il corpo come una terribile onda di marea. Poi gli occhi delle sculture: attimi di morte che passano davanti come la sequenza di una pellicola senza fine. D’improvviso affiorano suoni monchi, roche grida e gemiti. Paura. Un miscuglio di sensazioni violente e drammatiche. Nessun’altra opera al mondo è capace di trasferire alla mia anima queste emozioni come il gruppo di Scilla. Sono in una delle sale del Museo Archeologico di Sperlonga e resto attonito. Non è solo la bellezza che mi inchioda davanti a queste statue ma soprattutto l’essere diventato, quasi senza accorgermene, parte di una tragedia più grande di qualsiasi altra cosa.
La storia è nota: alla fine degli anni ’50, durante i lavori di costruzioni della via Flacca che collega tutto il litorale laziale, furono rinvenuti in pezzi i frammenti di un meraviglioso puzzle. Si riferivano alla maestosa "Odissea in marmo" che l’imperatore Tiberio commissionò per arricchire, con stupendi giochi d’acqua, la grotta della sua villa a Sperlonga. Grazie a un lavoro certosino di archeologi e restauratori, durato decenni, hanno ripreso vigore alcuni dei momenti più significativi dell’Odissea: l’accecamento di Polifemo, Ulisse che porta il corpo morto di Achille e soprattutto l’incontro di Odisseo con la temibile Scilla. Pochi ingredienti sono bastati all’autore per confezionare l’ultima tragedia vissuta dall’eroe prima del suo ritorno a casa. Da un lato compagni sbranati, al centro (maestoso sul ponte della nave) Ulisse che tenta una strenua resistenza e, infine, gettato impietosamente davanti allo sguardo dello spettatore l’ultimo marinaio. I nervi del collo tesi, le braccia avvinghiate alla prua della nave, e gli occhi risucchiati ormai dalla morte imminente, persi nei gorghi neri del mare.
Questi tratti, così vividi e potenti, introducono ad uno dei momenti più violenti di tutta l’Odissea. Siamo al libro XII. Abbiamo lasciato Odisseo e i suoi compagni in un angolo di Sicilia rude e inaccessibile. Quella dell’entroterra solcato dalla vallata del fiume Imera, prossima alle esalazioni mortifere delle rocce solfuree, dove il poeta cala il regno dei morti. Ripreso il mare, e seguendo le istruzioni ricevute, Omero descrive la via del ritorno attraverso lo "stretto" tra "Scilla e Cariddi" e "Thrinakia" ovvero l’isola del Sole.
Se da Imera viaggiamo verso est lungo la costa settentrionale della Sicilia giungiamo effettivamente ad uno stretto che è quello di Messina. Un’identificazione non solo sicura ma confermata, oltre che dalla descrizione che ne fa Omero e che fra poco vedremo, dalla maggior parte degli autori antichi. Scilla, nello specifico, andrebbe associata alla cittadina "Roccia di Scilla" che si trova nella parte calabrese dello Stretto mentre Cariddi già in antichità venne identificata con le correnti dovute all’alternanza delle maree.
È a dir poco straordinario che un greco di età arcaica, che non aveva alcuna conoscenza del fenomeno marea, abbia descritto con una precisione stupefacente il movimento delle maree nello stretto. Dice Omero:
settentrionale della Sicilia.
«Tre volte al giorno la rigetta e tre volte al giorno la risucchia paurosamente».
Queste parole sembrano proprio rispecchiare quanto accade intorno allo stretto: quando la corrente centrale (che arriva dal Tirreno) tende verso sud si chiama rema scendente, quando tende a nord rema montante. Ciò corrisponde alla perfezione alla Cariddi "risucchiante" e alla Cariddi "rigettante" di cui parla Omero.
Ma seguiamo il dettaglio del racconto. Costeggiato il tratto settentrionale della costa siciliana Ulisse e i suoi compagni approdano nel punto più a est dell’isola, presumibilmente tra l’Isola di Faro con le sue dune sabbiose (luogo proposto anche come possibile isola-scoglio delle Sirene) e il capo Scilla. Ci troviamo dunque a metà strada tra la costa siciliana e quella calabrese, Calabria e Sicilia sembrano toccarsi, nell’angolo nord-est dell’isola.
«Subito io scorsi un fumo e una grande onda e udii un rimbombo» fa dire ad Ulisse il poeta.
È assai probabile che questa descrizione del fenomeno si riferisca alla circostanza secondo la quale le masse di acqua del Tirreno e dello Ionio si scontrano fra loro ogni 12 ore. Spesso le onde si innalzano per parecchi metri. Tale formazione ondosa, per nulla innocua, i locali la chiamano taglio, a sottolinearne la pericolosità. Nessuna meraviglia dunque se anche i compagni di Ulisse di fronte a un tale fenomeno ebbero paura al punto da far volare via i remi. A questo punto, di fronte al fenomeno della marea montante, Ulisse ha soltanto due alternative per le quali Omero ha lasciato delle indicazioni molto precise.
Lungo il primo percorso ci sono "pietre cadenti" e contro queste rocce si infrange l’onda del mare. Plancte le chiama Omero e dice che "di là non passano uccelli… per di là non ancora fuggì salvandosi alcuna nave di uomini che vi giunge, ma tavole e rottami e corpi di marinai li travolgono le onde del mare e le eruzioni di fuoco distruttore". A cosa si riferisce precisamente?
Le Plancte o rocce cadenti sono state interpretate spesso con i fenomeni vulcanici delle vicine isole Lipari. E in effetti il riferimento alle eruzioni vulcaniche, frequenti, di Stromboli sembra la spiegazione più convincente. Anche in considerazione del fatto che nelle giornate più limpide le Lipari sono visibili all’imbocco nord dello Stretto, in particolare Stromboli con il suo pennacchio di fumo proprio come riportato da Omero.
Tuttavia Ulisse scelse il secondo percorso attraverso lo Stretto di Scilla e Cariddi. Ancora le parole di Omero:
«Si muoveva (Ulisse) per la nave ed incoraggiava i compagni con buone parole, uno dopo l’altro, stando loro vicino… e a te, pilota, ecco il mio ordine… da quel fumo e da quell’onda tieni fuori la nave e cerca di rasentare lo scoglio» e ciò significa non a nord verso Stromboli (fumo) e lontano dal taglio (onda grande), ma dall’altra parte, verso la roccia di Scilla (scoglio).
Stando a queste parole la rotta corrispondente è da porre lungo la costa calabra, la parte dello Stretto che presenta scogliere. Considerando che Omero immagina un viaggio molto lungo è assai probabile che la localizzazione di Scilla non sia solo da collocare con la roccaforte rocciosa dell’odierna Scilla ma con tutta la scogliera tra Scilla e Capo Cavallo.
«Navigammo dentro lo stretto gemendo» prosegue l’aedo nel raccontare le emozioni dell’equipaggio.
Eppure, nessuno oggi direbbe questo dello stretto. Al contrario, questo braccio di mare, è oggi attraversato da migliaia di persone, turisti e non, che possono godere dell’infinita bellezza della costa siciliana (specialmente al tramonto). Il punto però è il seguente: i traghetti non transitano da Scilla e Capo Cavallo ma molto più a sud dove lo Stretto è molto più largo (da Villa San Giovanni). Per un momento mettiamoci negli occhi di questi antichi naviganti: si sono lasciati alle spalle onde fragorose e anomale e si trovano adesso in un angolo di terra così stretta dove le rocce sembrano quasi crollare addosso. Tuttavia il senso di smarrimento e paura non doveva dipendere tanto da questo quanto piuttosto dai pericoli di Scilla e Cariddi, che lì incombono. Ma chi o cos’erano Scilla e Cariddi? E in quali pericoli esattamente potevano imbattersi i naviganti in antichità?
Per le caratteristiche geomorfologiche del territorio in questione non si può che pensare a terremoti e maremoti. La parte orientale dello stretto di Messina è la zona tettonica più turbolenta d’Europa. Omero, nello specifico, indica diversi caratteri distintivi di Scilla: vive su uno scoglio ed è un mostro bruttissimo, un malanno immortale la chiama Omero. Eppure, questa minaccia nelle parole del poeta non appare mai con un’evidenza reale. Ulisse voleva ucciderla con una lancia ma non "riusciva a scorgerla in nessun luogo". Anche quando l’eroe giunge alla roccia di Scilla una seconda volta, trascinato dalla deriva, di nuovo egli non vede Scilla. Evidentemente Scilla è invisibile, ma si può comunque udire: "Spaventosamente latra… la roccia mugghiava terribilmente". Scilla poteva sollevare in alto sei uomini e divorarli sulle aperture. In effetti i terremoti possono scagliare in aria oggetti pesanti e farli scomparire in crepe e fenditure. Tutte queste caratteristiche della Scilla omerica sembrano adattarsi bene a un terremoto.
Anche a proposito della descrizione di Cariddi Omero sembra riferirsi a un terremoto o un maremoto. Ecco in proposito le parole del poeta:
«Da una parte c’era Scilla e dall’altra la divina Cariddi cominciò spaventosamente ad inghiottire l’acqua salata del mare… la pallida paura afferrava i compagni… noi guardavamo verso di lei (Cariddi) con il terrore della morte. E intanto Scilla mi ghermì dalla concava nave sei compagni, che erano i migliori per forza di braccia. Volsi lo sguardo di su la prua e ad un tempo dietro i compagni: ma ormai ne vidi solo i piedi e le mani mentre venivano levati in alto. E gridando mi chiamavano per nome disperati… Quella fu davvero la cosa più miserevole che vidi con questi miei occhi fra tutte le disavventure che soffersi, esplorando le vie del mare».
Tutti questi parallelismi (rimbombo nelle rocce, onde anomale, fondale marino scoperto, animali marini morti, uomini inghiottiti nelle fenditure) dimostrano che Omero descrive molto realisticamente fenomeni naturali e con Scilla e Cariddi fornisce la prima descrizione di un terremoto e di un maremoto in Europa.
«Dopo che sfuggimmo alle rocce e alla tremenda Cariddi e a Scilla, subito arrivammo all’isola incantevole del dio».
«Fermammo la nave in un porto incavato, vicino all’acqua dolce» dice Omero.
Il riferimento è all’Isola del Sole "che dà gioia ai mortali" e che la maga Circe aveva severamente consigliato di evitare a causa dei buoi consacrati al Dio. Tuttavia, i compagni ormai stanchi, capeggiati dal timoniere Euriloco, si opposero e non seguirono la rotta consigliata da Ulisse. Al contrario si procedette ad una manovra di approdo. Seguendo la rotta fin qui seguita all’interno dello Stretto giungiamo all’entrata settentrionale del porto di Messina.
Il porto di Messina è un bacino di circa 600 metri di diametro, protetto da un molo naturale ed è l’unico incavato che ci sia nella zona. Ulisse trova qui sull’isola "Thrinakia", cioè l’isola del tridente, i buoi e le pecore del Sole. Il nome dato all’isola ha dato luogo a molte discussioni. Esso ricorda il "Trinakria", toponimo con cui è ricordata la Sicilia tutta. Ma a ben guardare qualcosa non torna. L’isola del Sole descritta in Omero, Thrinakia appunto, è incolta e disabitata, cosa che non parrebbe corrispondere alla Sicilia. Ottica diversa se si attribuisce il toponimo Thrinakia al solo molo di Messina che con le sue tre sporgenze ricorda chiaramente quello di un gigantesco tridente. Anche la successiva estensione del nome all’intera Sicilia avrebbe però un senso. Da Thrinakia (isola del tridente) si è passati a Trinakria, isola dei tre angoli, che ben caratterizza la forma della Sicilia.
A causa della bonaccia i compagni di Ulisse furono trattenuti in Thrinakia per diverse settimane. "Per un mese intero soffiava Noto senza posa: non si levò alcun altro vento all’infuori di Euro e Noto", ovvero venti che spirano da sud e che sono prevalenti nell’area intorno a Messina. Solo quando caddero questi venti Ulisse e i compagni ripresero il mare con un probabile vento da nord, fatto non del tutto insolito nel messinese.
"Non appena lasciammo quell’isola e nessuna altra terra appariva alla vista, ma avanti c’era solo cielo e mare…" e poi "allora il figlio di Crono (Zeus) fermò una nuvola oscura sopra la nave: la distesa delle acque sotto si incupì".
Per gli antichi Zeus dominava sull’Etna ed il suo vistoso pennacchio (la nuvola oscura) è caratteristica allo sbocco meridionale dello Stretto di Messina. Quindi non ci troviamo più nei dintorni del porto, da dove il fumo del vulcano non è visibile, ma presumibilmente all’uscita dello Stretto, in direzione sud, fra Reggio Calabria e Capo Péllaro. Il naufragio, nel quale Ulisse perderà gli ultimi compagni rimasti, non avviene in un punto qualsiasi ma proprio dove ha termine lo Stretto pieno di pericoli ed il Mar Ionio, il mare di Itaca, è ormai raggiunto. Circostanza tutt’altro che rara visto che lo sbocco meridionale dello Stretto di Messina a causa del mutamento dei venti è teatro di frequenti naufragi.
A salvarsi fu soltanto Ulisse legando insieme la chiglia e l’albero maestro e salendoci sopra. Nuovi venti da sud lo risospinsero verso l’imbocco nord dello Stretto, ripassando per la funesta Cariddi, per poi approdare sull’isola di Ogigia dove abitava la ninfa Calipso.
Di tutte le peripezie di Ulisse patite nello Stretto, tra rocce cadenti e correnti terribili, un’immagine continua a passarmi davanti agli occhi. Più forte dell’odore del sale e dei tramonti struggenti che baciano di sole quest’angolo orientale di Sicilia. Sono gli occhi terribili di Scilla, fissati nelle sculture di Sperlonga. Occhi che rapiscono e che sprofondano, con muta minaccia, il cuore dell’uomo nell’antro più scuro dell’abisso.
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