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JEANNE
DU BARRY
BLOCKBUSTER
MAL RIUSCITO

di ANDREA ALOI

 

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Francia, metà del Settecento. Figlia di una cuoca dai costumi non irreprensibili e di un monaco francescano sensibile ai richiami della carne, Marie-Jeanne, nata Becu e poi sempre fedele al patronimico de Vaubernier, si è consacrata ai posteri come Madame du Barry, Favorita Reale di Luigi XV ed erede del ruolo della Pompadour. Donna di sfolgorante bellezza, una Moll Flanders libertina con annesse fortune e sfortune alla corte di Versailles, Camelot di intrighi, cicisbei, lotte di potere e odi ben coltivati, una figura trascorsa in luci e ombre, di quelle che titillano gli storici e sembrano fatte apposta per diventare romanzi o film. Libera, fiera dei propri sentimenti, modernamente scandalosa. Presente, nell’interpretazione di Asia Argento, in “Marie Antoinette” di Sofia Coppola, Madame torna ora in pompa magna nel sontuoso biopic “Jeanne du Barry. La favorita del re”, diretto dalla poliedrica francese Maïwenn, a tal punto invaghita del personaggio da ricrearsene una privata e costosa versione e da interpretarla in prima persona con audace noncuranza dell’anagrafe e ben giostrando col focoso Borbone. Un sovrano tormentato dai lutti familiari e da sorelle e cortigiani poco o nulla inclini a tollerare la liaison con Jeanne, un emblema dell’assolutismo efficacemente reso con misura di toni dal sessantenne Johnny Depp, di nuovo sugli altari dopo la vincente avventura processuale con l’ex moglie Amber Heard, incauta accusatrice del divo per violenze domestiche.



La du Barry incontra il re, già attempato, e lo abbaglia nel 1768, a venticinque anni, la pur seduttiva e affascinante Maïwenn viaggia sui quarantasette. Sfida quasi riuscita sul piano attoriale, a parte le insopportabili risatine con cui intende sottolineare l’attrito tra la verace Jeanne e l’etichetta di corte. Del resto la regista (e sceneggiatrice con Teddy Lussi-Modeste e Nicolas Livecchi) si è presa molte altre libertà storiche e sarebbe il meno. Il cinema non è un saggio da soppesare all’Accademia di Francia e le interessava soprattutto proporre una figura femminile coraggiosa, in grado di uscire dai binari dello strapotere maschile e quasi di tracciarsi una vita indomitamente nuova, oltre i privilegi della posizione di Favorita, indigesta al clero ma tollerata e regolamentata, fin dalla umiliante visita ginecologica dei medici di corte, viatico obbligatorio per l’arruolamento tra le coltri regali. Jean-Benjamin de La Borde, primo, fedele valletto del re (un Benjamin Lavernhe da applauso, suo il personaggio più riuscito) è funzionale alla storia del film ma con la Storia poco c’entra; il terzo duca di Richelieu (l’“eterno” Pierre Richard) diventa un innocuo vecchietto e non fu il conte Jean-Baptiste du Barry (Melvil Poupaud) a sposare Jeanne, conferendole il titolo nobiliare per entrare ufficialmente, nel 1769, un anno dopo il primo fatale rendez-vous, a Versailles e insediarsi come Favorita ufficiale, bensì il fratello minore Guillaume.



Nel film è Jean-Baptiste, nobilotto spiantato, a intravedere in Jeanne, parrucchiera e commessa, tutte le potenzialità per far strada nel mondo del libertinaggio a gettone e poi tentare la scalata alla vetta, è un amante-prosseneta noto alla polizia col garbo e i modi giusti per insegnare a Jeanne come comportarsi nelle parigine “cene eleganti” (questo termine ci ricorda qualcosa?). Le solite scorciatoie della commedia umana, che molto spesso fanno tappa nelle alcove. Poi tra la du Barry e Luigi XV fu amore vero, meglio così. Inventare è lecito, reggere decentemente un film di 113 minuti sfarzosamente proposto con più d’una gita a Versailles, sarebbe comunque doveroso. Invece “Jeanne Du Barry. La favorita del re” traballa e assomiglia troppo a una favolotta di ascesa e caduta con infelicissimo fine senza alcuna maestosità e profondità, alla “Barry Lindon”, per dire e restare in un certo climax storico. Vabbé, qualsiasi accostamento con Kubrick è quasi sempre impossibile. Ma risulta impietoso, restando al tema di una donna romantica e sincera oppressa dalle convenzioni mistificanti, pure il semplice raffronto con la potente Sissi di Vicky Krieps ne “Il corsetto dell’imperatrice” di Marie Kreutzer, una “vita dorata in gabbia”, che in “Jeanne du Barry” è giocata con stereotipie narrative (vedi la naïf a Versailles, un “fish out of water” da sfruttare meglio), rese con effusioni emotive abbastanza semplificate e pennellate grottesche senza misura. Vedi le sorelle più antipatiche del re, in ogni caso principesse del sangue, ansiose di cacciare la “creatura” (così definiscono la Favorita) e trasformate in una fotocopia delle sorellastre di Cenerentola con parruccone extralarge, sovraccaricate di finte moine preadolescenziali e assurde smorfie.



Nè va meglio col vespaio dei nobili di primo e secondo rango e le relative battaglie intestine. In “Jeanne du Barry” si avverte appena l’eco del conflitto tra il ministro de Choiseul (Patrick d’Assunção) che puntava a installare a corte sua sorella, la duchessa di Grammont, e il duca di Richelieu (nipote del cardinale) impegnato a fargli abbassare la cresta e interessato facilitatore dell’ascesa di Jeanne. Osteggiata, come se non bastasse, anche da Maria Antonietta d’Asburgo Lorena (Pauline Pollmann) la promessa sposa del Delfino, nipote di Luigi XV e futuro Luigi XVI (Diego Le Fur, figlio di Maïwenn), per converso amico della Favorita. Impossibile sfuggire al paragone con “La Favorita” di Yorgo Lanthimos, feroce, ultimativo duello tra le cugine Sarah (Rachel Weisz) e Abigaill (Emma Stone) per godersi i favori della Regina Anna di Gran Bretagna (un’Olivia Collmann da punto esclamativo), agli inizi del fatidico Settecento. Il set parla chiaro: Lanthimos batte Maïwenn 6-2.



Povera Jeanne, rimarrà in cima alla piramide del regno per pochi anni, senza mai alimentare vendette nonostante le malelingue in servizio permanente. Luigi XV nel 1774 soccombe al vaiolo - il vaccino di Jenner sarebbe arrivato dopo poco più di due decadi - ha 64 anni e in articulo mortis la ripudia pentendosi dei molti peccati (a Versailles era uso ritirarsi con appetitose pulzelle in una stanzetta segreta, chiamata trébuchet, "trappola per uccellini”). Non condanniamolo per il tardivo abbraccio a Cristo, anche il sulfureo Voltaire, che ben conobbe la du Barry, si sarebbe inchinato nel 1778 alla croce nell’approssimarsi della fine. Si è meno inclini ad assolvere la regista, esageratamente corriva con una Jeanne senza parrucca, i lunghi capelli al naturale, pantaloni da uomo, abiti a strisce e ai confini dell’assurdo quando, trepidando per il Luigi al lumicino, devotamente ne sbaciucchia il volto martoriato dal vaiolo, malattia temuta che mieteva decine di migliaia di vittime. La du Barry aveva imparato ad amarlo, ricambiata assai, però mica era gonza.



Il resto è affidato alla voce narrante, nell’edizione italiana, dell’ottimo Francesco Prando. Abbandonata Versailles per il convento, ne uscirà per godersi anni sereni nel castello di Louveciennes fino al tradimento del paggio africano Zamor, già suo protetto a corte tra i brusii dei candidi incipriati, che l’avrebbe denunciata e offerta ai furori rivoluzionari, con tanto di ghigliottina. Era l’8 dicembre 1793, Jeanne terza classificata dopo Luigi XVI e Maria Antonietta, sottoposti alle cure del boia rispettivamente a gennaio e ottobre. “Jeanne Du Barry. La favorita del re”, film arrivato con qualche aspettativa in coda all’estate targata “Barbieheimer”, aveva fin troppo generosamente aperto Cannes lo scorso maggio, a ribadire la caccia al blockbuster in terra di Francia dopo il gagliardo, azzeccato “I tre moschettieri. D’Artagnan” di Martin Bourboulon. Missione ardua, il box office sentenzierà. Distribuito in Italia da Notorious Picture, il piccolo kolossal da 20 milioni di euro, coprodotto da Francia, Belgio e Regno Unito, è stato girato in pellicola da 35 millimetri e ben se ne giova l’impatto visivo. Onesta la fotografia di Laurent Dailland, un omaggio all’ovvio le musiche di Stephen Warbeck, impeccabile il montaggio di Laure Gardette, recentemente all’opera in “Mon Crime” di Ozon.



Maïwenn, figlia di un bretone di origine vietnamita, la madre è l'attrice franco-algerina Catherine Belkhodja (nota appositamente scritta per il ministro-cognato Lollobrigida residente nella corte di Palazzo Chigi, timoroso della sostituzione etnica), evita di firmare i suoi film col cognome Le Besco, causa dissapori con papà e mammà. Ha all’attivo molte regie, tra le migliori il duro “Polisse” del 2011, dolente viaggio alla scoperta della squadra di protezione dei minori della polizia di Parigi. Curiosità rosa: Maïwenn è stata, appena adolescente, compagna di vita per un lustro di Luc Besson, che poi avrebbe rivolto le sue attenzioni a Milla Jovovich. “Jeanne du Barry” è il suo primo film in costume e si è portati a pensare che possa essere anche l’ultimo.






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