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AFTER WORK
IL NON-LAVORO
CHE CI ASPETTA

di MASSIMO CECCONI

Un curioso documentario di coproduzione europea descrive, anche attraverso interviste a personaggi più o meno famosi, l’evoluzione del mondo del lavoro ai nostri tempi in presenza di fenomeni quali le nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale. Una documentata carrellata di opinioni e di dati raccontano la complicata trasformazione dell’universo produttivo (quasi) in ogni parte del mondo.

Ed eccoci all’introduzione delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale che già in moltissime catene di montaggio sono abbondantemente utilizzate. Il che, in estrema sintesi, vuol dire che ci sarà, ma già c’è, meno lavoro per tutti, laddove si apre la questione del che fare per offrire alternative a chi dal lavoro è stato allontanato. Detto per inciso, nel film non si fa però alcun accenno alle problematiche connesse al Covid che anche loro hanno trasformato drasticamente il mondo del lavoro con l’home working o affini.



C’è l’impiegato sud coreano che tutti i giorni, giorno dopo giorno, si alza alle 6 del mattino per essere al lavoro alle 7 sino alle 23, quando stacca per tornare a casa, cenare e andare a letto. Così implacabilmente anno dopo anno. Racconta che questo è stato il solo modo per poter permettere alla sua famiglia una vita serena. C’è il ministro del lavoro di quel Paese che, conscia degli eccessivi ritmi lavorativi dei suoi connazionali, impone drastici provvedimenti del tipo che a una certa ora i computer si spengono e quindi il lavoratore è costretto a smettere e deve tornarsene a casa, sembra infatti che in Corea del Sud l’infelicità regni sovrana. Nulla però è detto sugli effetti di tale intervento.



Ci sono i giovani italiani che, a detta di un autorevole sociologo, nella misura del 30% sono nulla facenti: niente lavoro, niente studio/formazione. Sembra che sappiano, coscienti o incoscienti, di avere un paracadute garantito dalle loro famiglie. Compare Elon Musk per dire che il reddito di cittadinanza, o misure simili presenti in altri paesi, sono un pessimo provvedimento, diseducativo e disincentivante.

A proposito di USA, è noto che là i lavoratori rinunciano abitualmente alle ferie tant’è che secondo un dato attuale, hanno rifiutato in un anno, per lavorare, ben 768 milioni di giorni di vacanza pagati.



Ma che fare quando le macchine prenderanno definitivamente il posto degli uomini? Al di là della reazione dei luddisti nel XIX secolo che già allora si erano posti il problema, una soluzione pare possa essere il reddito di base universale che, al di là dell’applicazione, richiama una riflessione di uno storico israeliano secondo cui "essere irrilevanti è peggio di essere sfruttati". Paradosso dei paradossi.

Sempre in Corea del Sud hanno rilevato che il lavoro provoca, tra numerosi effetti collaterali, anche tumori allo stomaco e alto tasso di suicidi. Almeno in Occidente, peraltro, il suicidio è un problema ben presente tra coloro che vengono collocati in pensione. Chi invece è baciato da immense ricchezze ereditate dichiara di essere afflitto da iperattivismo come se il suo non lavoro fosse un vero e proprio lavoro (potare le siepi di un immenso giardino dotato di labirinto o allevare cavalli per diletto, senza disdegnare lussuosi viaggi intorno al mondo).



C’è invece chi dichiara che il suo unico hobby è il lavoro, quindi niente distrazioni e massimo impegno per creare profitti e “fà sù i danee”, come si dice dalle parti di Milano.

In Kuwait, considerato dall’OMS il Paese “più fisicamente inattivo del mondo”, molti dipendenti pubblici sono pagati per non fare nulla. Mentre gli immigrati, destinati ai lavori più umili e pesanti, vivono in semi-schiavitù. Ma questo non è un problema solo del Kuwait. Prevale la tesi che il lavoro gratifichi chi ce l’ha, cosa accadrà quindi quando le nuove “eticità” del lavoro metteranno a riposo milioni di persone?



Il quesito, per quanto allarmante, non è di facile soluzione. Il documentario dimentica però di raccontarci cosa rappresenti il lavoro per la stragrande maggioranza dell’orbe terraqueo. Continenti come l’Africa o l’America Latina, per non dire di super nazioni come l’India e la Cina, come affrontano le problematiche lavorative? Se è vero che l’occidente, almeno in parte, si è liberato delle grandi fabbriche, quali sono o quali saranno le ricadute su gran parte del mondo? Non è dato sapere e il film non solo non ce lo racconta, ma neppure affronta la questione.



“After Work” propone un tema sicuramente centrale per il futuro prossimo, lo fa però con una certa approssimazione e senza i necessari approfondimenti. Per essere godibile lo è, ma evoca scenari che hanno bisogno di ben altro livello di interpretazione e di sviluppo. Dirige, divertito, l’italo-svedese Erik Gandini che nel 2009 al Festival di Venezia diede scandalo con il suo “Videocracy”, documentario che aveva tra i suoi protagonisti anche Silvio Berlusconi. Per chi non lo avesse visto, evitiamo di spoilerare.

 

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