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PETER
VON KANT
AMARCORD
FASSBINDER

di ANDREA ALOI

Amore. Dolcissimo, rapinoso, spietato, una guerra per il potere dove ci sono, quasi sempre, un vincente e una vittima. “Peter von Kant”, firmato dal fieramente omosessuale François Ozon, è un omaggio di bel calibro registico alla “sregolatezza” esistenziale del geniale Rainer Werner Fassbinder e al suo film del ’72 “Le lacrime amare di Petra von Kant”. Un gender swap, dall’innamoramento della stilista Petra per la giovane Karin alla passione divorante di Peter, celebrato regista, per il conturbante Amir, Adone che imparerà a sfoderare gli artigli e a graffiare a sangue. E sono ottantacinque minuti di teatro-cinema sorretti da Denis Ménochet, protagonista monumentale per corporeità e interpretazione dell’egolatrico Peter, fisicamente un calco di Fassbinder, pur senza le classiche canottiere traforate del regista tedesco. Ozon lo fa reincarnare in un suo celebre film e l’operazione, pensando a quanto per Fassbinder, morto a 37 anni, vita e arte si fondessero, ha un senso profondo.



Primi anni Settanta, giusto il ’72. Peter vive a Colonia con Karl, uno smilzo ragazzo gay muto come un pesce (per natura o per scelta?). Tuttofare, cameriere e spicciafaccende, gli aggiusta pure i dialoghi della sceneggiatura di un film con Romy Schneider che von Kant sta per girare. Amante forse, di sicuro sempre in adorazione del regista che lo tratta in modo burbero, da narcisista incurante dei sentimenti altrui, siano quelli di Karl (uno strepitoso Stefan Crepon) o della figlia adolescente Gabrielle (Aminthe Audiard), un evidente “errore” di gioventù. “Sono infelice”, confessa al padre, è andata a trovarlo per il suo compleanno - compie quarant’anni - e riceve in risposta una risata beffarda: Peter non sa e non può esser partecipe, tutto preso com’è dal dolore per la rottura con Amir Ben Salem (Khalil Ben Gharbie).



Era entrato nella vita di Peter qualche tempo prima su presentazione dell’attrice e storica amica Sidonie von Grasenabb (Isabelle Adjani), un colpo di fulmine per il regista in carriera molto voglioso di lanciare sugli schermi quel ragazzotto con un matrimonio fallito alle spalle, tipino indolente di sguardo furbetto e forme piacevoli. La storia è passionale, Amir s’innamora anche (molto a modo suo, si concede distrazioni sempre “gaie”), Peter è infuocato dal desiderio, senza aver cura, crudelmente, della presenza di Karl, e ha iniziato a perdere il giovane amante quando, passati alcuni mesi, gli è montata una bruciante gelosia. Amir grazie a Peter ha fatto strada nel mondo del cinema, le spalle si sono fatte larghe e, insofferente, ha preso il volo.



Quando il regista riceve per il compleanno la visita della figlia, di Sidonie (Isabelle Adjani) e della madre Rosemarie (Hanna Schygulla, iconico volto fassbinderiano, oggi quasi ottantenne) è al colmo della disperazione, annegato in un mare di lacrime, amare sì però innaffiate di gin tonic. Il momento narrativamente perfetto per una rottura emozionale, dà di matto, impreca contro tutti, non risparmia Zeffirelli, definito “quella checca pazza dell’opera”, e si acquieta con una ninnananna materna. Finalmente rassegnato alla perdita di Amir, si rifiuta di vederlo e gli cresce sugli occhi un sorriso: ha rinunciato a lui, lo ama ancora, può darsi che, messa a tacere la possessività, lo ami davvero. In ritardo però. Il Narciso grazie al dolore è finalmente uscito dalla gabbia dell’ego, chiede perfino scusa fuori tempo massimo a Karl e si prende un meritato sputazzo in pieno faccia. Così pure il servo se ne va sbattendo la porta.



Fassbinder aveva girato “Le lacrime amare di Petra von Kant”, un kammerspiel melò, in dieci giorni, rispettando gli spazi chiusi della pièce teatrale originaria. La matura femmina dolente era Petra (Margit Carstensen), Anna Schygulla, molti chili fa, interpretava la giovane amante Karin, mentre Irm Hermann era Marlene, la serva. Ozon non solo ha voluto la Schygulla, ha girato a sua volta praticamente tutto il remake nell’appartamento di Peter e, in adesione allo stile di Fassbinder, non ha lesinato in forti campiture cromatiche e ha posto a sigillo, accanto alla megaimmagine di un tormentato-seduttivo San Sebastiano, un manichino femminile, simbolo già presente nelle “Lacrime amare”, là congruamente, visto che Petra si occupava di moda, qui per appuntare un altro spillo evocativo.



Un’ammirazione totale per il regista di “La paura mangia l’anima” (capolavoro) e “Il matrimonio di Maria Braun” Ozon l’aveva già mostrata traducendo in film nel 2000 un’altra pièce di Fassbinder, “Gocce d’acqua su pietre roventi”, opera prima, a vent’anni, del regista tedesco. E poi, per andare un po’ sul prosaico, “Peter von Kant” era un lavoro perfetto in tempi di covid, set domestici e via.



Assodata per l’ennesima volta la versatilità di Ozon - è uscito quasi in contemporanea il suo “Mon crime”, lussureggiante commedia giallo-rosa ambientata nella Parigi degli anni Trenta - e applaudito per la scelta poco mainstream il distributore italiano Academy Two, diamo i giusti meriti al cast. Ménochet senza mezza falla è un Falstaff collerico fragile come il cristallo, il giovane, sensazionale Stefan Crepon anima un Karl baffuto col fisico da acciuga che si affida alla mimica, cammina quasi scivolando, sgrana gli occhioni: una presenza che dilaga ritraendosi, talvolta buffa, da teatro dell’assurdo, ma che bravura. Isabelle Adjani è una Sidonie melliflua e smagata, i 67 anni limati dalle luci e da lifting sopraffini. Montaggio nelle mani sicure di Laure Gardette, palate di sentimento nelle musiche di Clément Ducol, la canzone tema del film “Ogni uomo uccide ciò che ama” è affidata alla voce di Isabelle Adjani. La locandina copia, con i nuovi interpreti, quella warholiana scandalosetta per “Querelle de Brest” (1982), ultimo lavoro cinematografico di Fassbinder. Nell’insieme un pacco dono per cinefili e non solo.

 

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