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ARGENTINA 85
UN PROCESSO
PER IL RISCATTO

di ANDREA ALOI

Cinque mesi di istruttoria, settecentonove casi esaminati, ottocento testimonianze, quattrocento faldoni e infinite telefonate di minaccia. “Argentina, 85” di Santiago Mitre non è solo un palpitante legal drama che per la prima volta ricostruisce con pathos e forte partecipazione il processo alle massime gerarchie militari - nove, tra generali e ammiragli, da Videla in giù - responsabili del golpe contro Isabelita Perón datato marzo 1976 e relativi, successivi crimini. Sostenuto da un procuratore lucido e di inesorabile umanità, Julio Strassera (lo interpreta da par suo Ricardo Darín), è un esame di coscienza spietato su compromissioni e omertà di milioni di argentini, quelli che sapevano cosa succedeva alla famigerata Esma, l’Escuela Mecánica de la Armada trasformata, da scuola ufficiale della marina, in centro di detenzione fuorilegge, mostruoso setaccio di cinquemila dissidenti o semplici sospetti, la gran parte torturati e uccisi. Milioni di argentini resi muti dalla paura, molti convinti della necessità di un “giro di vite” e che magari avevano denunciato un amico, fatto finta di niente davanti al pianto della madre di un desaparecido. Un clima plumbeo, dove si viveva quando andava bene una semivita, uguale in tutto e per tutto a qualsiasi regime, nato in nome di un dio o della difesa della patria dai terroristi, dai soliti “nemici” interni protetti da qualche potenza straniera. Un obbrobrio che aveva, sopra a tutti, i nomi e i cognomi dei capataz del “Processo di Riorganizzazione Nazionale”: l’orrore ha sempre i suoi eufemismi, come stiamo vedendo con l’“Operazione Militare Speciale” griffata Putin.



Anno 1983, la Guerra Sporca contro la “sovversione” è finita. Videla, l’ammiraglio Massera (iscritto alla P2 e amico di Licio Gelli), Galtieri, Agosti e compari delle giunte militari susseguitesi per sette anni sono ormai stati travolti dalle proteste popolari, l’avventura bellica delle Malvinas è fallita miseramente e il nuovo presidente Alfonsín tiene il punto, la democrazia è tornata ma ancora deve consolidarsi. I nove cacicchi da lupanare - per dirla con le parole di Neruda - sono stati processati dalla giustizia militare e immediatamente mandati liberi, un “non luogo a procedere” devastante per il fiscal Strassera. Mastica amaro davanti alla tv, dove il ministro dell’Interno blatera insensatezze pacificatorie, e non sa se gioire o tremare quando la Corte d’Appello lo incarica di istruire un processo per provare a inchiodare i generali. Negli anni del terrore gli hanno impedito di lavorare, si sente oppresso, accetta l’incarico sorretto dalla moglie Silvia (Alejandra Flechner, bravissima) e dal giovanissimo figlio Javier (il sorprendente Santiago Amas Estevarena). Deve scalare una montagna impossibile in una manciata di settimane e si trova ad allestire una squadra composta da un gruppo di giovani, impiegati, praticanti - mostrine poche, entusiasmo a mille - e da un vice Luis Moreno Ocampo (Peter Lanzani) nato in una famiglia di militari e con una madre che risponde perfettamente al ritratto di una fascista, il cervello intasato da giustificazioni come “si doveva difendere il Paese dal terrorismo”. Avrà modo di ricredersi.



E sì che gruppi armati marxisti-guevaristi o peronisti si erano dati da fare, in un periodo di pesanti incertezze e già caratterizzato da governi militari, ma la risposta brutale del golpe “definitivo” era rivolta alle domande sociali inevase, alla miseria, ai venti della contestazione giovanile. Tra telefonate minacciose a casa del pm, resistenze burocratiche, trasmissioni tv che trasformano i carnefici in vittime e uno strano clima sospeso, ai primi vagiti di libertà vera in un Paese per mezzo secolo senza continuità democratica, i ragazzi della Procura vanno caccia di testimoni, li inducono a presenziare alle udienze, servono casi emblematici che parlino per tutto il cuore di tenebra argentino, per le decine e decine di migliaia di vittime.



Aprile 1985. Si va in aula, in tempo, miracolosamente. Sfilano i generali e ciascuno ripete una formula in sé eversiva: “Non riconosco la legittimità di questa Corte”. Io militare rifiuto il giudizio di un tribunale civile: mai era successo, in effetti, ma c’è sempre una prima volta. Il portavoce del nutrito gruppo di difensori è baldanzoso, ha chiesto e ottenuto che le madri della Plaza de Mayo in aula si levino dal capo il fazzoletto bianco, il simbolo della loro lotta, una “bandiera” politica per il legale, l’avvocato Basile (Héctor Díaz, bravo a disegnare uno sprezzante villain). Si prenderà e porterà a casa il meritato epiteto di fascista da parte di una giovane del pool. Ma sfilano anche i testi. C’è la donna che partorisce in una macchina della polizia, viene denudata, umiliata, le impediscono di tenere in braccio il bambino. Un’attivista torturata con la tecnica del “sottomarino”, il waterboarding cioè, un annegamento simulato. Un altro racconta che alle torture era presente un medico per controllare quante cariche elettriche la vittima poteva sopportare. Puro sadismo “in stile neroniano”, spiega il fiscal, pollice su ti salvavi la ghirba, pollice giù crepavi.



Il sagace Strassera, dall’inizio alla fine del processo non attacca ideologicamente i militari, li accusa di fellonia, di aver tradito la Repubblica e calpestato i più elementari diritti umani. Torturare, sequestrare, sottrarre i neonati alle madri, eliminare non è lotta politica, i terroristi non si massacrano, si processano nella legalità e cosa c’entravano gli studenti, i sindacalisti, i professori d’università? Il progetto era di annichilire qualsiasi voce non allineata alle paranoie autoritarie. “Voi avete agito con perversione morale, avete compiuto un genocidio”, con “ferocia, codardia e in clandestinità”, ribadisce. “Nunca más”,“mai più”, così Strassera chiude, il 9 dicembre dell’85 la requisitoria col pubblico in piedi ad applaudire, è l’Argentina che si è rialzata e il regista - ai tempi un bambino, ha 42 anni - “legge” il momento alternando finzione e filmati d’epoca, quasi indistinguibili grazie alla fotografia di Javier Juliá, con colori sbavati sovraesposti in perfetto mood anni Ottanta.



Il processo va in porto, alcuni generali sono assolti, altri condannati, Il generale Viola è stato condannato a 17 anni, l' ammiraglio Lambruschini a 8 anni, Ramon Agosti a 4 anni e sei mesi. Per Massera e Videla, il massimo della pena, l’ergastolo. E tutti vengono destituiti dalle loro cariche. Videla era stato definito all’epoca l’“Hitler della Pampa” e qualcuno ha suggestivamente paragonato il processo di Buenos Aires a quello di Norimberga. Proporzioni immani dei crimini nazisti a parte, il processo argentino è giuridicamente eccezionale, per la prima volta in Sudamerica alti rappresentanti dell’esercito venivano giudicati non da un Tribunale Militare Internazionale come a Norimberga ma da una corte d’appello ordinaria e quando erano andati alla sbarra Göring, Hess e Bormann il regime hitleriano era stato definitivamente schiacciato, nell’85 argentino tantissimi criminali erano ancora in giro e e occupavano posti di potere nell’amministrazione e nell’esercito. La battaglia giuridica e civile di Julio Strassera e Luis Moreno Ocampo fu la miccia che innescò altre denunce e processi, ancora non finiti. Come per i regimi dittatoriali europei entre deux guerres , la ventata di golpe sudamericani a cavallo dei Settanta-Ottanta aveva sconvolto l’intero continente, sotto gli occhi complici del Grande Fratello yankee e della Cia, ispiratori, in chiave anticomunista, di una “dottrina della sicurezza nazionale”, coltivata nella “Scuola delle Americhe” di Panama, una sorta di accademia interamericana di guerra e repressione. Forse qualcuno ricorderà i nomi del boliviano Hugo Banzer, del brasiliano Figueiredo, del paraguaiano Stroessner, quanto alle mattanze guidate da Pinochet in Cile hanno avuto risonanza mondiale.



“Argentina, 1985”, sceneggiato da Mariano Llinás con Santiago Mitre, è l’ultimo di una serie di film in cui il Paese Sudamericano ha rielaborato gli anni della scioccante dittatura, lavori spesso d'alto livello tutti passati in Italia, da “La notte delle matite spezzate” (1986), diretto dal grande Héctor Olivera a “Garage Olimpo” (1999) di Marco Bechis, da “Cronaca di una fuga-Buenos Aires 1977” di Israel Adrián Caetano uscito nel 2006 al bellissimo, inquietante “Il clan” di Pablo Trapero (2005), che non si focalizza sugli scempi di Videla ma restituisce il clima di amorale impunità del periodo attraverso la privata storia criminale di Arquímedes Puccio, ex uomo dei servizi. In quest’ultimo film, accanto al protagonista, Guillermo Francella, si fa valere Pedro Lanzani, mentre a scorrere l’imponente filmografia di Ricardo Darín lo ritroviamo nel ruolo di accanito difensore della legge nel conturbante thriller “Il segreto dei suoi occhi” di Juan José Campanella, premio Oscar al miglior film straniero nel 2010: un agente dei tribunali va a caccia di un assassino, compito non dei più semplici nell’Argentina fuorilegge del ’74. I regimi insieme alla libertà e alla umana decenza disseccano pure la pubblica giustizia.



In sala per pochi giorni nell’autunno scorso, il film di Mitre, candidato all’Oscar e vincitore di un Golden Globe, era subito passato allo streaming di Amazon Prime Video cui era destinato, molto lodevolmente Lucky Red e Circuito Cinema lo hanno adesso rilanciato sul grande schermo e lì, con buona pace degli aficionados di divani e tv a 100 pollici, questo film di denuncia civile ritrova il suo habitat ideale.



 

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