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THE WHALE
RISALIRE
DAL FONDO
DI UNA VITA

di ANDREA ALOI

Laggiù nell’Idaho, alla periferia di una periferica città americana. Charlie è un uomo di mezza età, pesa 272 chili e vive in fondo a un pozzo di rimpianti. Non ha spento l’intelligenza e l’empatia da buon professore di letteratura né l’amore assoluto per la figlia sedicenne, i risparmi, quando morirà, saranno tutti per lei: “Devo sapere di aver fatto almeno una cosa giusta nella mia vita, voglio che Ellie abbia una vita decente”.



Pressione a livelli stratosferici, respiro sibilante, cuore in macerie, Charlie (Brendan Fraser nel ruolo più sfidante in carriera) rifiuta il ricovero in ospedale caldamente suggerito dall’affettuosa Liz (Hong Chau), amica e infermiera, ha pochi giorni davanti e gli preme l’urgenza di saldare alcuni conti con le parole giuste. Per Liz, per l’ex moglie Mary (Samantha Morton) depennata a favore di una passione totale per l’allievo Alan, per la giovane Ellie abbandonata quando aveva otto anni (Sadie Sik), per gli allievi del corso di scrittura creativa on line tenuti all’oscuro della sua obesità. C’è un Darren Aronofsky nuovo, senza eccessi e misurato in “The Whale”, “La Balena”, emblema della mole di Charlie e arpione ostinato dell’intera sceneggiatura, splendidamente orchestrata da Samuel D. Hunter, autore dell’omonima opera teatrale. Il cetaceo è proverbialmente, assolutamente, quella bianca entità degli abissi a nome Moby Dick, opera fondante della letteratura americana, tra fascino della Natura e abissi della tracotanza umana. E al testo di Melville sono dedicate le pagine di un antico tema di Ellie, scritto quando aveva dodici anni. Pochi grammi di carta diventati un feticcio, un tempo perduto, Charlie quasi vi si aggrappa al culmine di una crisi cardiaca che lo ha colto mentre guardava un film porno gay in tv.



“The Whale” scorre in due ore senza tregua all’interno di un appartamento, tranne un paio di rapidi flashback e l’inizio (una strada dritta in mezzo al verde). Teatrale nel ritmo delle entrate e delle uscite di scena, è stato girato con un rapporto - 1,33:1 - che dà allo schermo forma quasi quadrata, puntando sui volti, il pathos, i disvelamenti, a restituire una cert’aria claustrofobica: il malandato protagonista si muove con estrema fatica, il “fuori” è un davanzale con un piatto e qualche briciola per gli uccelli, lo si intravede a stento, i vetri sono grigi di sporcizia. Il nuovo Aronofsky, superata la boa dei cinquanta, abbandona gli svoli non sempre comprensibili (pensiamo a “Madre!” del 2017 con Jennifer Lawrence e Javier Bardem, uno di quei film horror-drama di cui si discute volentieri appena usciti dalla sala per far mostra di averne compresi i significati più reconditi ma che non ci si sognerebbe mai di rivedere) e torna ferocemente su uno dei temi spesso frequentati, la corporeità, la fisicità. Come nel notevole “The wrestler” (2008), Leone d’Oro a Venezia, col lottatore in disarmo Mickey Rourke all’ultimo giro di giostra e la dolcissima ragazza madre-lap dancer Marisa Tomei. Corpi e vite all’estremo anche per “Il cigno nero” (2010) che ha valso l’Oscar a Natalie Portman, ballerina classica schizoide sulle note di Čajkovskij. Tralasciamo “Noah” (2014) con Russell Crowe nei panni di Noé, fantasy biblico di discreto successo ma complessa digestione, così archiviato dal brillante critico di origini canadesi James Rocchi: “Auden metteva in guardia coloro che ‘leggevano la Bibbia per la sua prosa’, ma dopo ‘Noah’, forse l’avviso migliore è quello di controllare quelle persone che leggono la Bibbia per realizzare scene d’azione widescreen”.



In “The Whale”, tanto Aronofsky si mette al servizio della storia, quanto un cast d’alto livello si dona convintamente al regista, senza eccezioni. La Ellie della bravissima Sadie Sik (è stata Max Mayfield nella serie Netflix “Stranger Things”), ventenne in pieno possesso di un’ampia gamma di registri, conquista lo spettatore da sedicenne incazzata col mondo, ferita da un padre disperatamente impegnato a riannodare in extremis il filo che ha spezzato andandosene di casa. L’amor fou con Alan è finito in tragedia, ripudiato dalla famiglia seguace della setta cristiana fondamentalista “New Life”, il ragazzo si è lasciato morire, dilaniato tra un sentimento vero ma irrituale e gli ammonimenti biblici sulla mortificazione della carne, ribaditi crudelmente dai genitori. Charlie, perso Alan, si è dedicato a sua volta all’autodistruzione, incamerando dosi abnormi di junk food, due pizze a pranzo, nugoli di merendine ipercaloriche nel cassetto della scrivania. “Guardami, chi è che mi vorrebbe nella propria vita?” dice a Ellie che lo rimprovera per la solitudine rinunciataria e letale e gli urla in faccia una disperazione mascherata da rabbia: “Anche non fossi obeso saresti sempre quel padre di merda che mi ha lasciato per scoparsi uno studente”. “Sei una persona meravigliosa, non potrei desiderare una figlia migliore di te”, Charlie invita la figlia ad andare oltre. Oltre a tutto, la madre che sbevacchia troppo e la rimprovera, l’incapacità di vedersi in un futuro migliore, le difficoltà a scuola. Le propone di aiutarla con i temi, ottenendo sprezzante diffidenza: “Vuoi farmi da genitore adesso?”.



Le schermaglie padre-figlia stanno nel nucleo intimo di “The Whale”, alzano l’emozione, colpiscono duro: Ellie fotografa Charlie col deambulatore, una montagna di carne flaccida, e lo posta sul web, a commento parole inesorabili: “Chissà come friggerà quando andrà all’inferno”. Eppure poco per volta le due vite separate si riavvicinano, si placano molte tempeste. L’ex moglie Mary rivede Charlie, si sono voluti bene, la tenerezza è intatta, imparano sul ciglio del burrone l’arte generosa della sincerità. E “siate sinceri con voi stessi” è il messaggio-lascito del professore agli allievi del corso di scrittura, mentre si mostra in video. L’amica-badante Liz, che è la sorella di Alan e dopo la morte del fratello ha preso a cuore le sorti di Charlie, rinuncia ai buoni e sicuramente tardivi consigli ma non ad ammonire l’insinuante Thomas (Ty Simpkins), giovane missionario della “New Life” in cerca di una preda da convertire: si levasse di torno e subito. Ma pure Thomas mostrerà una faccia nascosta. In “The Whale” non c’è personaggio senza chiaroscuri e - in mezzo a errori e omissioni - un’umanissima energia affettuosa in attesa di germinare. “Credo che sia impossibile essere incapaci di amare” sussurra Charlie, in fondo al pozzo ma d’animo gentile sa dove trovare un po’ di tepore spirituale, una redenzione senza fede e senza dogmi. Il Verbo, il Logos vince sulla peggiore apparenza, Charlie adesso vola nella luce, trascende da se stesso ripetendosi un brano del tema di Ellie su Moby Dick: “L’autore ci parla tanto di balene per ritardare il momento in cui succedono cose brutte”. E se la balena bianca, fosse anche la gioia di parlare di balene con le persone che amiamo? Nell’ultima riga del tema Ellie scrive di essere una bambina felice. Forse, più matura, tornerà su sentieri migliori.



Per “The Whale” Brendan Fraser, classe ’68, è stato candidato all’Oscar, agli americani le performance trasformistiche piacciono, ma il trucco prostetico, ovvero il largo uso di protesi, non copre una efficace, commovente prova. Fraser aveva raggiunto grande notorietà con la trilogia della “Mummia” (il primo film era uscito nel 1999), dove impersonava l’avventuriero ex della Legione Straniera Rick o’Connell, una specie di Indiana Jones senza il carisma di Harrison Ford. “The Whale” è prodotto da A24, distribuisce in 354 sale I Wonder Pictures con Unipol Biografilm Collection.



 

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