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GRAZIE RAGAZZI
ASPETTANDO GODOT
FUORI E DENTRO
LE SBARRE

di ANDREA ALOI

Il teatro aiuta la vita, fa uscire da se stessi per ritrovarsi meglio. Un balsamo speciale per chi sta dietro le sbarre e ha esperienza quotidiana solo di porte chiuse. Pensateci: “dietro le sbarre” vuol dire una cella, una mensa, un cortile. E allora perché non provare a “passare del tempo” imparando un testo, provando a metterlo in scena? “Mejo dello yoga, che è roba da froci”, dice, quasi per giustificarsi, uno dei detenuti nel penitenziario di Velletri che ha scelto per disperazione di partecipare al laboratorio teatrale condotto da Antonio Cerami (Antonio Albanese), attore in disarmo e finito a doppiare film porno. Un altro si dichiara “allergico alla segatura”, cioè alle pulizie di corridoi e bagni, insomma, si comincia tra diffidenza e imbarazzo, che sarà mai ‘sto teatro?



“Grazie ragazzi” di Riccardo Milani, pure al lavoro col soggetto e la sceneggiatura in compagnia di Michele Astori, è una commedia di buoni e ben dosati sapori umani, seminata d’ironia, venata di umori malinconici e punte d’amaro, quasi due ore a buon ritmo “costruite” per piacere - senza eccessive accondiscendenze all’emozione facile - a un pubblico largo. Missione non facile e riuscita, ci vogliono mestiere (Milani ha all’attivo tra gli altri “Benvenuto Presidente!” con Claudio Bisio e “Come un gatto in tangenziale” e relativo sequel con Paola Cortellesi e Albanese), misura e una discreta sapientia cordis, una saggezza del cuore, per raccontare di carcerati e vite nel freezer, esistenze in attesa (di visite dei parenti, di un fine pena magari lontano, di un permesso premio, di un lavoro esterno). E quale pièce poteva meglio adattarsi all’avventura teatrale di una manciata di disillusi del beckettiano “Aspettando Godot”? L’assurdo al quadrato, fra testo e contesto, parole nonsenso e vita in detenzione.



“Grazie ragazzi” è un remake del francese “Un triomphe” del 2020 di Emmanuel Courcol, protagonista Kad Merad, come Albanese bravo a transitare dal registro leggero a quello “serio”, film uscito in Italia col titolo “Un anno con Godot” e ispirato alla storia vera dell’attore svedese Jan Jonson che aveva portato in scena l’opera più nota del drammaturgo irlandese con un gruppo di detenuti, storia poi raccontata nel 2005 in un documentario della regista Michka Saäl, “Prigioneri di Beckett”. Tema abbondantemente arato dunque, nel film francese con aperti intenti sociali (per dire, aveva partecipato alla produzione Robert Guédigueian, uomo di cinema engagé come pochi), mentre “Bravi ragazzi” risulta più divertito, pur pigiando all’occorrenza sul tasto drammatico-commovente. E lasciamo perdere qualsiasi paragone con il bellissimo “Cesare deve morire” (2012) dei fratelli Taviani, che giocava proprio in un altro campionato.



Antonio se la passa male, campa di gemiti e finti orgasmi, vive in un postaccio a Ciampino vicino alla ferrovia, moglie sparita verso altri lidi, radi contatti con la figlia emigrata in Canada. Così accetta di tenere un laboratorio teatrale in carcere su istigazione dell’amico Michele (un gigionissimo Fabrizio Bentivoglio), direttore a Roma del teatro Bellosguardo, attore tronfio e con un concetto di sé più che alto, spaziale, tanto che in una locandina del teatro lo si vede nei panni di Riccardo III, Don Chisciotte, dell’“Avaro” di Moliére e, spudoratamente annerito dal cerone, di Otello. Uno in gloria, l’altro confinato in una solitudine irrimediabile. E l’esperienza in carcere non inizia benissimo, la pattuglia dei detenuti che ha aderito all'idea del laboratorio è incattivita dalle sbarre e asfaltata dall’alienante istituzione totale, non meno del capo degli agenti di custodia (Nicola Rignanese), occhiuto e inutilmente aspro. Aziz (Giacomo Ferrara) è un ragazzo di madre libica, nato sul barcone che lo portava in Italia, ha accoltellato un tipo che lo insultava per le sue origini, il rotondo Mignolo (Giorgio Montanini) è un virtuoso della copula durante gli incontri periodici con la moglie, completano la classe il balbuziente Damiano (Andrea Lattanzi), dentro per faccende di spaccio, l’albanese Christian (Gerhard Koloneci) e, in veste di factotum, il romeno Radu (Bogdan Iordachiu). Vengono nominati dai colleghi di avventura i detenuti Favino e Servillo, ma non se la sono sentita di partecipare…



Antonio si rispecchia nel plotoncino dei vinti e però decide con dignità di fare sul serio, di scalare la montagna. Insegna l’importanza dell’uso del diaframma nell’espressione vocale, pesta duro sulla dizione e tiene alla puntualità degli incontri. “È da mezz’ora che sto qua”, rimprovera il ritardatario, che ribatte: “Io sto qua da sette anni”. Le guardie osservano, gli “attori” si esercitano mimando la gestualità delle scimmie davanti al loro naso, si stanno slegando e Antonio, ricordandosi degli speranzosi ed entusiasti inizi di carriera al fianco di Michele proprio con Beckett, chiede e ottiene dalla direttrice del penitenziario (Sonia Bergamasco) di prolungare il laboratorio per mettere in scena “Aspettando Godot” e dall’amico, molto riluttante, il palcoscenico del Bellosguardo per rappresentarlo. Un lunedì, per dare meno fastidio, Michele avrebbe in mente una locandina acchiappa-pubblico e senza vergogna: “Aspettando godrò”. “E cos’è, una storia di Beckham?”, immagina Damiano. No, è un copione tosto di Samuel Beckett e a lui tocca il personaggio di Lucky con tanto di impegnativo monologo, dovrà esercitarsi allo spasimo. Mignolo sarà il prepotente Pozzo che tiene al guinzaglio Lucky, Aziz il candido Vladimiro e a Christian, uno capace di tradurre il dolore in talento, va il ruolo del suo stralunato compare Estragone, almeno fino a quando Michele (Vinicio Marchioni), dentro per rapina, non decide di estrometterlo, prendendone il posto. È un duro, in carcere detta legge ed è meglio non contrariarlo, saputo che “Aspettando Godot” andrà in scena a Roma vuol essere della partita perché spera che il suo giovane figlio venga a vederlo a teatro.



Tra alti e bassi funzionali alla peripezia di una fiaba che sta per diventare realtà, la singolare compagnia lavora alacremente, qualche indispensabile rudimento tecnico è appreso, Antonio sente che sta nascendo del buono, pungola, urla: “Beckett non è sacro, è vostro”. Messaggio metabolizzato a suo modo da Radu, che da suggeritore s’inventa incarnazione di Godot e nella sospensione dopo lo scambio di surreali battute finali tra Estragone e Vladimiro (“Allora andiamo?”, “Andiamo”. E non si muovono), sfila dietro l’albero che ha classicamente campito per tutta la piéce in mezzo alla scena con una coperta in testa e l’aria stralunata. Godot stavolta è arrivato, l’assurdo di Beckett è assorbito.



Arriva la sera della prima, Damiano-Lucky ha paura ma se la cava egregiamente, Aziz-Vladimiro colpisce al cuore con la sua innocenza: "Ho forse dormito mentre gli altri soffrivano?". Giù il sipario e applausi. Testa alta e inchino al pubblico. Tutti si sentono uomini migliori, per qualcuno, come per Damiano, è una svolta che cambia la vita. Al rientro in carcere, ubriachi persi, Mignolo e gli altri si denudano e deridono gli agenti, abitualmente severi: perché non ci perquisìte adesso? La bravata sembra siglare la fine della storia di riscatto morale, un peccato perché molti teatri chiamano, vogliono quel Godot e Antonio la spunta con la complicità della direttrice del penitenziario, scorza dura e cuore di panna e perfino attratta dal sensibile capocomico. Via in tournée a Siena, a Pisa e gran finale al Teatro Argentina. Il vanaglorioso Michele adesso squittisce, in platea presenziano la giudice di sorveglianza, la ministra della Giustizia e soprattutto il bambino di Diego. Il resto guardatevelo in sala, occhi puntati su Antonio.



“Grazie ragazzi”, uscito da noi con Vision Distribution, ha messo d’accordo pubblico e critica, la storia non ha cedimenti e facili morali, la vita agra del detenuto e l’abisso in cui finisce vengono fuori schiettamente. Un plauso speciale va al convincente e solido Antonio Albanese, che mette in mostra un arsenale recitativo di prim’ordine, a Damiano Lattanzi e, forse la sorpresa migliore del mazzo, a Giacomo Ferrara, già in veste di detenuto nel dimenticabile “Il permesso-48 ore fuori” (2017) di Claudio Amendola. Sottotono Vinicio Marchioni. Alle musiche Andrea Guerra, al solito, non sbaglia un colpo.



 

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