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AMICIZIA
E SOLITUDINE
DUE DESTINI
IN ALTA QUOTA

di ANDREA ALOI

Racconta una storia nepalese che otto montagne formano un cerchio e in mezzo c’è una montagna più grande. Ci sono uomini che non sanno stare fermi, come l’inquieto Pietro nato in città, e girano per tutte le vette e altri, come il montanaro Bruno intagliato nel legno, che non si muovono dalla vetta al centro. Due temperamenti lontani con affinità profonde, uniti da una amicizia nata quand’erano bambini con radici più forti di qualsiasi distacco o litigio, un legame “benedetto” da pareti di pietra e sommi cieli.



“Le otto montagne”, firmato dalla coppia fiamminga Felix Van Groeningen (“Beautiful boy” con Steve Carell e Timothée Chalamet) e Charlotte Vandermeersch non tradisce il gran libro omonimo di Paolo Cognetti da cui è tratto e se il film vive delle solide interpretazioni di Luca Marinelli (Pietro) e Alessandro Borghi (Bruno), dà un ottimo contributo anche la regia a quattro mani, asciutta, non ruffiana, con panorami sconfinati e bellurie tra Val d’Aosta e Nepal (già la scelta del formato 4:3 dice tutto), attenta a restituire una montagna autentica, per come è, i declivi verdi, un lago, i ranuncoli gialli d’estate e la bianca, algida durezza dell’inverno. Uno sguardo che fa venire in mente “Il vento fa il suo giro” (2005), pregiato esordio di Giorgio Diritti girato in Val Maira, nel Cuneese, protagonista il pastore francese Philippe, individualista e ramingo. Lassù, in compagnia di stambecchi e ghiaioni, la solitudine sembra un destino e “Le otto montagne” lo conferma.



Metà anni Ottanta. Pietro vive a Torino, madre insegnante (Elena Lietti) e padre ingegnere (Filippo Timi) perdutamente innamorato della montagna, passa le estati in una casa in affitto a Grana, una frazione di Brusson, paese della Val d’Aosta. Mille e trecento metri di altitudine, boschi, prati, torrenti. E lì incrocia Bruno, un ragazzetto sveglio già impegnato a guadagnarsi il pane, a mungere, preso da mille incombenze. Vive con la zia - il padre fa il muratore, è sempre lontano per lavoro - e si ritaglia con qualche difficoltà del tempo per scorrazzare con Pietro, riscoprendo momenti di gaiezza che aveva dimenticato. È cresciuto in fretta, in fondo sa tutto quel che occorre per vivere nel posto dove è nato. La mamma di Pietro, visto il forte legame nato tra i due bambini (il piccolo Lupo Barbiero è Pietro, Cristiano Sassella interpreta Bruno), vorrebbe portarlo a Torino a studiare, ma arriva il “no” del padre muratore, Bruno dovrà lavorare con lui e seguirlo all’estero.

I semi di un conflitto sono piantati e, col passare degli anni e l’arrivo della prima giovinezza, pure Pietro inasprirà i rapporti col padre, un travet abbastanza infelice tranne quando può partire per qualche escursione in alta quota, sono i suoi momenti d’oro, lontano dalla fabbrica con diecimila operai dove è imprigionato. “Non diventerò mai come te”, gli urlerà in faccia prima di andarsene di casa Pietro, ragazzo inconciliato, ribelle, in cerca di un qualcosa ancora indefinito.



Lavora in un pub, fa il cuoco. Se la passa così, senza concludere, ha una storiella con Lara (brava Elisabetta Mazzullo), nulla di importante. Si è incontrato fugacemente con Bruno a Grana, quando erano poco più che adolescenti, si ritrovano tanti anni dopo, misurando all’istante un legame mai indebolito. Hanno più di trent’anni. Pietro è diventato scrittore ed è tornato da uno dei suoi viaggi in Nepal, dove frequenta una maestra (Surakshya Panta), dolce e amorevole coi suoi alunni, figli di gente povera che sanno ancora sorridere. Dalle pendici dell’Himalaya può solo tornare a Grana, la montagna lo ha contagiato. E davanti a un rudere fuori paese gli cambia la vita. “Tuo padre qui voleva costruire una baita” dice Bruno “il sogno di una vita, gli ho promesso che ci avrei pensato io”.



La madre gli ha già raccontato che l’amico era diventato una specie di secondo figlio per il papà: “Lo ascoltava, gli chiedeva consigli”. Pietro è scosso, dimentica i malintesi, le liti, adesso l’ingegnere fumatore nevrotico e morto da solo in auto per un malore (la scena dell’Alfa accostata con le luci d’emergenza in un deserto urbano non si dimentica) lascia spazio affettuoso al padre che lo accompagnava nelle escursioni, lassù, a guardare in faccia il Monte Rosa e, più lontano, il Cervino, così entusiasta della montagna da portarlo con Bruno in una salita pericolosa, tra neve e crepacci. Pietro legge la vecchia cartina delle gite, coi percorsi segnati dal genitore, altri ne tratteggia: il passaggio di testimone è compiuto e il ragazzo sfuma entrando, giovane uomo, in una matura consapevolezza. Ritorna sui passi di antiche arrampicate, come in un’analisi del profondo che viaggia non discendendo nell’inconscio, ma salendo nell’aria pura. Davanti a una croce di ferro, in vetta, sotto alcuni sassi c’è una scatola con un quaderno coi pensieri di chi è salito fino a toccare il cielo, Pietro rilegge una vecchia pagina, ci sono le le parole del padre colmo di gioia per la passeggiata col figlio.



È deciso, ricostruirà con l’amico grande la baita, legni e malta che salgono a dorso di mulo. Bruno leva un ingombrante arbusto di pino cembro cresciuto tra i vecchi pietroni, lo trapianta poco lontano: “Questo vive bene solo dove è nato, se lo metti da un’altra parte stenta”. Come me, potrebbe aggiungere Bruno, sradicato da ragazzino per volontà del padre, una violenza. Arrivano un giorno di sole alla baita rinata alcuni amici torinesi di Pietro, estasiati dalla valle, dalla cornice di monti: “Qui si potrebbe tirar su un villaggio ecologico, immerso nella natura”. “Natura? È un concetto astratto, per noi esistono le cose che indichiamo col dito: quella vetta, quella valle, quel prato” ribatte l’orso Bruno. “Ma pensa un orto, che bello”. “E d’inverno mangi l’aria…”, chiude con realismo il montanaro vero, che mal sopporta vezzi e passioncelle naturalistiche di quelli di città.

Tra gli amici c’è Lara, Pietro le piace ancora, ma viene attratta da Bruno, che ricambia, ben stimando una donna volitiva, amante del fare concreto. Vuole andare all’alpeggio per fare formaggi “come una volta” e Lara sa tenere i conti, non si risparmia. Ci provano, hanno pure una bambina. La vita procede con mille immaginabili difficoltà fino alla crisi: i conti non tornano, Lara scongiura Bruno ad accettare un lavoro allo skylift, lui non cede, lascia la compagna e la figlia e si rifugia nella baita, sempre più chiuso, inasprito da una vita difficile. La modernità che pialla le vite non è per lui. “Io sono capace di fare l’uomo che vive da solo in montagna, nient’altro” dice a Pietro. Si avvicina un epilogo tragico.



“Le otto montagne” è accompagnato dalla voce narrante di Pietro, che rievoca e sigilla: “Non pensavo di trovare un amico come Bruno nella vita”. Il film ha vinto il premio della Giuria a Cannes ed esce da noi in poco meno di 400 sale, un buon viatico per ripetere il successo del libro di Cognetti in Italia (premio Strega nel 2017) e all’estero. La montagna per lo scrittore milanese, che ora vive in Val d’Aosta ai piedi del Bianco, è un amore vero, una necessità.

Piccola nota: il film è frutto di una coproduzione tra Belgio, Francia e Italia, di un impegno insomma rilevante, e la coppia Marinelli-Borghi (di nuovo insieme dopo il tostissimo “Non essere cattivo” del 2015, lavoro di Claudio Caligari portato a termine da Valerio Mastandrea per la morte del regista a fine riprese) va a mille, peccato per due piccoli nei. Bruno da bambino e da ragazzo ha i “capelli biondo canapa”, come scritto nel libro, da trentenne i capelli diventano marroni e lo stesso Bruno ha la giusta cadenza in patois da bambino mentre da grande parla, per bocca di Borghi, con un accento infiltrato da cadenze venete.

 

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