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ORLANDO
NUOVI AFFETTI
FRA LA SABINA
E BRUXELLES

di ANDREA ALOI

Le due ore di “Orlando”, firmato da Daniele Vicari, premiano con gli interessi chi ha la pazienza di immergersi in una storia di silenzi e distanze che parte con una lentezza pudica e misurata per crescere inesorabile, di minuto in minuto.

Un vecchio e una bambina, Orlando e Lyse, reciprocamente sconosciuti, si incrociano davanti alla morte di Valerio, padre di lei, un evento che scuote la vita. La piccola è nata e cresciuta a Bruxelles, il nonno ritrovato ha le radici in un paesello della montagna sabina, in provincia di Rieti, dal quale mai si è staccato. Hanno entrambi paura di un possibile reset esistenziale e il timore, vista la situazione, è fondato, Orlando è l’unico parente che può farsi carico di Lyse, non ha altri al mondo. Per diventare famiglia uno dei due deve abdicare alla propria dimora, ma quanto sarà lacerante? La semplice idea di patirlo, il distacco, è una botta brutta, lo sanno i migranti. E questo sprofondo in un altrove temuto non ha età o forse ha solo età “peggiori” delle altre: quando si è vicini all’ultima meta oppure non si è ancora abbastanza grandi per desiderare un volo.



Due generazioni e in mezzo il nulla, Orlando (Michele Placido, in perfetta aderenza al personaggio) ha settantacinque anni, sua nipote Lyse (la bravissima Angelica Kazankova) dodici, partono, l’uno con l’altra, da zero. Lui è un contadino brusco e fiero, si autoprotegge con un carattere a spigoli e tanti anni prima ha litigato sanguinosamente e rotto ogni rapporto col figlio che non aveva una mezza idea di rimanere al paese e se n’è andato a Bruxelles a caccia di una fortuna mai ghermita. Poi, la morte prematura. Orlando deve schiodarsi, andar lassù a fare la sua parte. Lyse ha una manciata d’anni e già uno zaino pesante sulle spalle, la madre alla nascita non l’ha riconosciuta ed è sparita, il padre non c’è più, se ne va pure l’affezionata baby sitter.

La scuola, l’amica del cuore, le pattinate sul  ghiaccio, una cameretta tutta sua in una piccola casa, il quartiere è multietnico, ci sta bene. Ecco il piccolo mondo fragile di una bambina, che Vicari  restituisce con mano felice. Orlando, appena arrivato a Bruxelles in tempo per vedere il figlio composto in una bara, non vede l’ora di tornare a casa. Lysa, in mezzo a tanti soffi di vento gelido, a casa vuole assolutamente restarci.

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L’impatto dell’anziano contadino con la metropoli belga è complesso, diffida per natura, non sa una parola di francese, viaggia con un po’ di banconote cucite nella giacca. Passare dal paese vista lago e dai giorni solitari scanditi dalla terra, dalla cura delle galline e dell’orto, con le abitudinarie visite al bar per un bicchiere, ai grattacieli di una città dove la vita sembra muoversi in corsie di macchine e formiche sconosciute, è micidiale. I grandangoli negli esterni fanno sembrare Orlando ancora più piccolo e fuori posto.

Il Nord Europa, di grigio e di freddo, sa essere repulsivo per noi che beviamo luce mediterranea. La cifra del vecchio è il silenzio, Lyse, con tenera affabilità poco, molto poco alla volta, lo scongela. Disinvolta, brava a cucinare, in qualche modo accudisce questo nonno arcaico e fumatore di sigarette senza filtro che non si dà pace di dover pagare tre mensilità arretrate a un nero, Kalidou (Denis Mpunga). 



Bruxelles è una città cara, Valerio - che mai si faceva chiamare papà, a sottolineare forse un rifiuto dell’adultità - aveva sognato di metter su un ristorante italiano in una sorta di magazzino vicino a casa, Orlando grazie a Kalidou trova qualche lavoro saltuario, troppo pesante per un uomo della sua età, s’impegna per Lyse, che ormai ha fatto breccia in quell’orso sempre meno muto, addirittura si è messo   a zappettare in un fazzoletto di terra sul retro di casa. E poi, come non volerle bene quando volteggia sul ghiaccio, Orlando poco alla volta la “vede”, ne ha compassione giusto nel senso di capire e partecipare al sentire della ragazzina.

Davanti al grande albero di Natale in piazza Lyse prende la mano del nonno, un nodo si è stretto. E arrivano gli assistenti sociali, la situazione della strana coppia va chiarita, il nonno deve decidere se accettare l’affido o lasciare la nipote in adozione. Uno degli assistenti sociali (bravo Fabrizio Rongione) mette in contatto Orlando con suo padre, un quasi paesano del protagonista, tanto per fargli sentire aria di casa e magari convincerlo a restare in Belgio, un’ipotesi che lo opprime: “Mica voglio crepare a tremila chilometri di distanza da casa mia”. Qualche parola Orlando la scuce, racconta della lite con Valerio (“Mi ha mandato affanculo, gli ho dato uno schiaffo”), rivendica la sua origine ("Non so’ ciociaro, manco pe’ gnente, so’ sabino”), mette mano dopo un bel po’ alla fisarmonica.

Orlando non vuole perdere Lyse, lei non accetta l’ennesima perdita, ha un nonno, lo vuole per sé e per sempre. Troveranno pace? .



Il cinquantacinquenne Daniele Vicari viene dalla stesse parti di Orlando - è nato a Castel di Tora, guarda caso un borgo splendido con vista sul lago del Turano - e tornisce con cura assoluta il suo protagonista, ha scritto il film con Andrea Cedrola, è stato un lavoro lungo ma ne valeva la pena. Del resto è un cineasta che ama raccontare quello che conosce, vedi il documentario “La nave dolce” sull’emigrazione albanese, e sa scavare come pochi la sua e la nostra terra. Mai una sbavatura, un calo di potenza, da “Velocità massima” (2002) con Valerio Mastandrea e Cristiano Morroni a “Il passato è una terra straniera” (2008) con Elio Germano e Michele Riondino, fino a “Diaz. Non pulite questo sangue” (2012) e al durissimo “Sole cuore amore” (2016) con Isabella Ragonese.



Corse d’auto clandestine, i confini tra legge e morale, la “macelleria messicana” ai tempi del G8, il precariato che uccide: non cercate un fotogramma superfluo nei film di Vicari, non c’è. Sono storie talmente incardinate nella cronaca più bruciante che il critico Alberto Crespi ha parlato di “commedie all'italiana senza le risate”, a indicare calibro e potenza di una figura importante della nostra cinematografia. Passato al Festival di Torino, “Orlando” è uscito in 43 sofferte copie, “bisogna sapere” - ha spiegato Vicari - “che in Italia abbiamo meno di 3.000 schermi, per cui quando escono film con 400 copie o persino con 800, rendono impossibile la vita alle distribuzioni più piccole”. Scandito dagli accordi graffianti e robusti alla chitarra di Teho Teardo, il film ha potuto giovarsi, tra gli altri, dei fondi della Wallonia e del supporto fondamentale, meritatissimo di Rai Cinema. A "Il cinema, l’immortale" Vicari ha appena dedicato un saggio - pubblica Einaudi - in nome della resistenza di un’arte che trova sempre nuove ragioni e nuovi orizzonti, mentre si conficca nella cronaca un suo romanzo-reportage, sempre per i tipi di Einaudi, “Emanuele nella battaglia”, sull’omicidio del giovane Emanuele Morganti, pestato a morte da tre ragazzi ad Alatri, in provincia di Frosinone. Era il 2017. Non lontano da Colleferro, dove tre anni dopo Marco e Gabriele Bianchi avrebbero ucciso Willy Monteiro. Altri concentrati di ordinaria follia italiana da non dimenticare.

 

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