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THE FABELMANS
LO SGUARDO DI UN MITO
DIETRO
LA CINEPRESA

di ANDREA ALOI

Arrivare alla bella età di 76 anni con all’attivo una schiera di filmoni (sì, perché non c’è Old o New Hollywood che tenga, i suoi sono onesti, buoni e spesso ottimi filmoni americani: sostanziosi, emozionanti, di spasso e “nutrienti”) e mantenere sempre viva quella necessità di reinventare mondi con la cinepresa che aveva da ragazzetto. Ci ha messo un po’ Steven Spielberg, qualcosa come mezzo secolo al galoppo nella fabbrica dello sguardo e delle illusioni più vere della realtà, poi, finalmente, al reinventare ha preferìto il rivivere e ha girato con “The Fabelmans” un film autobiografico nato per accarezzare il cuore della gente che cerca in laica comunione, al buio, davanti a uno schermo, le buone ragioni per innamorarsi un’ennesima volta del cinema. E addirittura Spielberg presenta il film, irritualmente, in prima persona, deus ex machina prima che si alzi il sipario, per ribadire il chiodo dell’eccezionalità: “Questo film è un atto d’amore per la mia famiglia e per il cinema”. Ve lo affido, fatene un buon uso, avrebbe potuto aggiungere.



New York, 1952. Eccolo lì il piccolo Sammy - lui preferisce esser chiamato Sam - in procinto di varcare per la prima volta, con mamma Mitzi e papà Burt, la soglia di una sala cinematografica. Proiettano “Il più grande spettacolo del mondo” di Cecil B. DeMille, qualunque bambino di sei anni si tufferebbe a pesce, non Sam, ha paura del buio, degli uomini giganti dei film. Burt per convincerlo a entrare adotta argomenti razionali, c’è un proiettore che fa vedere immagini, niente di magico. Mitzi gli parla della bellezza dei sogni. E così padre ingegnere e madre pianista mancata si presentano, si vogliono un gran bene e però sono differenti e questo peserà irrimediabilmente sulla famiglia Fabelman. Sam si convince, vede “Il più grande spettacolo del mondo” e una scena lo marchia a fuoco, quella di un treno del celebre “Ringling Bros. e Barnum & Bailey Circus" che investe un’auto sui binari e quindi si scontra con un altro treno del megacirco. Locomotive e stupore, come per “L'arrivée d'un train à La Ciotat” dei fratelli Lumière, gli spettatori, dai tre ai novant’anni, sono sempre bambini da incantare. Ricevuto un trenino a Natale, Sam (Mateo Zoryan) ricostruisce la scena dell’incidente, con successo e danni vari ai giocattoli. Burt (Paul Dano) gli sequestra il trenino, Mitzi (una febbrile, gloriosa, trepida Michelle Williams, dopo quattro candidature all'Oscar questa potrebbe essere la volta buona per vincerlo) gli spalanca un mondo consigliandolo di riprendere l’incidente con la cinepresa del papà, in modo da potersela rivedere finché vuole. Il bambino ci prova e ci riesce, arriva a impressionare la pellicola con ciò che desiderava. Sam dischiude le mani, le tiene unite, le trasforma in schermo per il suo primo “film”. Sono immagini accudite intimamente e il gioco, si capisce, comincia subito molto seriamente. "Non basta amare una cosa, bisogna sapere prendersene cura…” è una delle battute chiave del film. Cura dei propri cari e dei propri sogni.



Sam, ormai diventato adolescente (Gabriel LaBelle, assolutamente perfetto) gira robine amatoriali con mezzi scarsi e un occhio finissimo, un mini western dove ricrea il lampo degli spari bucando la pellicola, un filmino di guerra usando come soldati i compagni di scuola, già così regista da spiegare al protagonista come deve “sentire” una scena drammatica, da sopravvissuto a una carneficina. Scrive, disegna lo storyboard, filma, monta: il cinema è sapere tecnico, alto artigianato e in qualche modo lo sarà sempre, alla faccia di tutti i color graphics adapter del mondo. “Non è un hobby”, contesta al padre, che lo vorrebbe magari ingegnere come lui. E ingegnere di successo, Burt si occupa di elettronica, ha portato la famiglia a Phoenix inseguendo un nuovo incarico di lavoro, il suo migliore amico Benny (Seth Rogen) li ha seguiti, Mitzi gli è affezionata, anzi, qualcosa di più. Sam lo scopre montando un filmino delle vacanze prima della partenza dei Fabelman per Los Angeles, crogiolo in cui bollono già molti degli ingredienti della futura Silicon Valley. Nel secondo piano di una classica scenetta familiare passano le immagini di Benny e Mitzi, Sam (e qui avvertire l’eco di “Blow-Up” è obbligatorio, ma Spielberg vola in cieli molto più alti, è uno dei momenti “sacri” del film) ingrandisce quei frame, li rallenta, vede: i due si tengono per mano, c’è un abbraccio. L’angelo dell’innocenza è caduto. Con la madre è rottura piena, ha paura che la sua famiglia frani, la colpevole cinepresa finisce nel cassetto, quasi fosse un oggetto magico, dotato di un potere temibile. E Los Angeles allargherà le crepe tra Burt e Mitzi, lei non ce la fa a stare lontana da Benny, lasciato fuori a questo giro. Al punto da procurarsi, appena giunta in California, una scimmietta, battezzata Bennie, per la quale costruisce, con difficoltà, una gabbia e son metafore a gogo. Benny è il suo amore profondo, imprigionato tra le sbarre. Come lei, del resto.



Papà e mamma in crisi, le tre sorelle di Sam in lacrime, separazione in arrivo, un nuovo liceo con alcuni ragazzoni tanto dotati di muscoli quanto esigui sul piano intellettivo e perdipiù coglionamene antisemiti. Momenti duri, di bullismo anche manesco, in cui si nuota per forza, pena l’annegamento. Da principio riluttante, Sam, in occasione di una festa in spiaggia del liceo, riprende in mano la cinepresa e sforna un gioiellino di humour, demolendo un suo atletico, biondissimo persecutore mentre ne esalta sulla pellicola le doti atletiche, mostrandogli ciò che è: un castrone con scarsi collegamenti sinaptici. Potere del cinema, e sì, può blandire, esaltare, scorticare. Non bene vanno le cose con la fidanzatuccia Monica (Chloe East), una specie di groupie di Gesù con la cameretta tappezzata di immagini del suo “idolo”, che offre a Spielberg il destro per alcuni momenti di puro witz ebraico. Sam, più o meno: “Per cinquemila anni siamo stati senza Cristo e non se ne sentiva la mancanza”.



Passa qualche anno, è tempo di college. Mamma Mitzi se n’è andata, con tutti gli strazi del caso. Sam patisce e vuole fare cinema, ha scritto a studios, tivù, aspetta un’occasione. Burt si è convinto, lo appoggia, è un bravo padre (“Ha una gentilezza che uccide”, pensava Mitzi). Si ascolta l’unica battuta politica di tutto il film quando Sam, lamentandosi del college dice: “Accidenti papà, sono in stanza con uno che vota Goldwater”, cioè Barry Goldwater, esponente di punta della destra repubblicana e fiero anticomunista (in uno dei posti meno abitati da pericolosi leninisti di tutta la terra, vabbè). L’America tra anni Cinquanta e Sessanta dei Fabelman e di Spielberg è tutta casette suburbane monofamiliari, nessun tremito sociale o battaglie per i diritti civili, niente Rosa Parks o crisi dei missili a Cuba. L’America del regista sta dalla parte giusta, marcia verso sorti sempre migliori, è terra del bene e della libertà, di un’epica positiva, come in “Salvate il soldato Ryan”. Sam ottiene una risposta dalla Cbs, riesce a incontrare un nume del cinema, il proverbialmente burbero John Ford, alle prese con l’interminabile accensione di un sigaro. Farà tesoro della sua breve e succosa lezione: “In una inquadratura se l’orizzonte è in alto, va bene. Se è in basso, va bene. Se è a metà è una merda”, ancora una manciata d’anni e nel ’71 sarebbe arrivato sugli schermi “Duel”, mica ciufoli. Momenti di pura mitologia, esaltati dal cameo di David Lynch (irriconoscibile) nei panni del Maestro.



“Mi chiamo John Ford e faccio western”. La battuta è nota. E Spielberg? Ha diretto di tutto e bene, come - vivendo in un altro quartiere della città cinema - ha fatto Stanley Kubrick. Alieni nostalgici, dinosauri incazzosi, archeologi con frusta e faccia tosta, squali extralarge, Spielberg è un bel pezzo di cinema che cammina nel tempo e mai si scorda da dove è venuto. A questo giro ci ha mostrato quanto una crisi familiare può essere dilaniante, il grado abissale della stupidità antisemita e il bisogno di esprimersi con l’arte, a tutti i costi e rischi. Anche quello di farsi molto male. È la lezione impartita a Sam dallo zio materno Boris Schildkraut (Judd Hirsch, che forza), un classico ebreo errante dell’est Europa, smagato e saggio. Ha lavorato nei circhi e pestato molta polvere, ammonisce il ragazzo: “Arte e famiglia non possono stare insieme, prima o poi si strappano una dall’altra”. L’arte promette conflitti, è esigente, se si vuole vivere con lei di spazio ne resta il giusto. L’incontro fugace tra Sam e Boris ha una tensione rara, grazie alla superba sceneggiatura dello stesso Spielberg e di Tony Kushner, coppia sperimentata (“Munich”, “Lincoln” e “West Side Story”).


“The Fabelmans” dosa e intreccia dramma e commedia, e, tra mille, bisogna ricordare le scene di convivio familiare, gagliardamente dialogate e impreziosite dagli ammicchi ora aspri ora ironici di Hadassah, la nonna paterna di Sam, una Jeannie Berlin deliziosa.

In attesa di conoscere quanti e quali premi vincerà (intanto si è aggiudicato quello del pubblico al Festival dei Toronto), i 151 minuti dei “Fabelmans” si propongono come la portata più appetitosa del cinema delle feste. Da noi è andato in sala con 01 Distribution e Rai Cinema. Curiosità: è il terzo film autobiografico di gran peso autoriale che esce nel giro di un anno o poco più, dopo “È stata la Mano di Dio” di Paolo Sorrentino e “Belfast” di Kenneth Branagh. E a primavera arriva “Armageddon Time” di James Gray, racconta gli anni passati dal regista alla Kew-Forest School nel Queens, a New York, la stessa scuola di un certo Donald Trump.

 

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