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TRIANGLE
OF SADNESS
HUMOUR NERO
IN CROCIERA

di ANDREA ALOI

“Soldi, soldi, soldi, tanti soldi/ Beati siano soldi/ I beneamati soldi perché/ Chi ha tanti soldi vive come un pascià/ E a piedi caldi se ne sta”. Così gorgheggiava a metà del secolo scorso Betty Curtis, su musica e testi di Kramer-Garinei-Giovannini. L’Italia si preparava al boom, il dollaro garantiva per tutti e ci preparavamo a vivere un’età dell’oro, con più diritti, più Stato sociale, accenni di redistribuzione del plusvalore (se il termine marxiano non offende qualcuno). Oggi, a capitalismo terminale finanziarizzato, crescente concentrazione della ricchezza in pochissime mani - il dato della Russia è allucinante: l’80% delle fortune è detenuto dal 10% della popolazione - e sconquassi bellici all over the world mixati a un clima a capinculo, l’assioma sembra meno difendibile, mostra crepe oggettive. E c’è chi si impegna a picconarlo, come il quarantottenne regista svedese Ruben Östlund in “Triangle of sadness”, apologo antisistema in tre atti satiricamente crudele e fin troppo proverbiale, dove una crociera alle Bermuda per ricconi a sei stelle - yacht da leccarsi i baffi, cucina gourmet, gli abbienti sopra, i lavoratori-schiavi sotto, tra sala macchine e cucina - frana e si trasforma in un viaggio alla Titanic con toni da disaster movie in salsa Monty Python e si conclude su un’isola deserta (o quasi) dal menu fisso: pochi i superstiti, natura umana a nervature scoperte e improvvisi ribaltamenti di classe.



“Triangle of sadness” è quella piccola selva di rughette verticali tra le sopracciglia, un incubo per chi di apparenza vive e ingrassa che prima o poi, con l’incedere del tempo, diventa realtà. Un destino per tutti, una livella. Ben levigati sono due giovani emblemi della selfie age, i modelli Carl (Harris Dickinson) e Yaya (la sudafricana Charibi Dean, scomparsa a soli 32 anni nell’agosto scorso), che è pure influencer e manipola a puntino il biondo amico di letto, invero un po’ ciolla e pedante. Il loro è un mondo parallelo all’insegna del “cinismo travestito da ottimismo” esplicitamente evocato durante una sfilata. Un dialogo tra i due bellocci al ristorante con seguiti aspri (Lui: “Toccava a te pagare stavolta”, Lei: “Davvero pensi che abbia fatto finta di non vedere che era arrivato il conto?”) ci fa piovere in una atmosfera in puro stile Östlund, un piccolo deragliamento scartavetra il mare della tranquillità, vengono a galla dubbi, accuse, le parole faticano a trovare un senso: tutto molto beckettiano e l’eco del suo precedente film, “The Square” del 2017, risuona netto. Là Christian, narcisistico curatore di un museo d’arte contemporanea a Stoccolma, va “fuori di tono” per una catena di eventi che lo trascina in luoghi ai margini e quindi sconosciuti della città, le provocazioni artistiche, le performance e le installazioni suonano false, al pari della spada di Damocle del politically correct, rispetto alla scabra durezza sopportata dagli ultimi della società. Qui la storia corre sul filo della coralità e i collassi nell’upper class sono plurimi e generalizzati.



A Yaya viene regalata una crociera de luxe, Carl si accoda. Sulle passerelle si sforza di essere qualcosa e qualcuno, sulla nave Carl è solo un perbenista geloso, tanto da denunciare un marinaio molto maschio alfa, colpevole di aver scoperto il petto villoso mentre lavorava in coperta e di aver suscitato cupide occhiate di Yaya. Il marinaio viene licenziato immediatamente, è normale sul mega yacht (nel film, girato in Grecia, è utilizzato il “Christina O” già di Onassis), dove vige l’ammonimento del primo ufficiale Paula (Vicki Berlin) a camerieri e hostess di bordo: il cliente deve essere assecondato sempre e comunque, perché alla fine pioveranno mance babilonesi. L’ipotesi galvanizza il personale di coperta che batte i piedi scandendo “soldi-soldi-soldi”. Il rimbombo giunge in sottocoperta, ma cuochi e addette alla pulizia, ci s’immagina filippini, continuano noncuranti a lavorare, in un flash dei due mondi attigui-distanti al gusto “Parasite” di Bong Joon-ho. Intanto il capitano Thomas Smith (Woody Harrelson, basta la parola) se la dorme incurante, devastato da un tête-à-tête con la bottiglia.



Lo zoo flottante propone validissimi esemplari della specie “pago dunque sono”, il magnate russo dei fertilizzanti e proprietario di allevamenti Dimitrij (Zlatko Burić), accompagnato dalla moglie Vera (Sunnyi Melles) e dalla prosperosa amante Ludmilla (Carolina Gynning), un panzone solito presentarsi con un franco: “Vendo merda”. I produttori di armi Winston e Clementine (Oliver Ford Davies e Amanda Walker), due vecchietti ancora sataneggianti e fieri del business: “Negli ultimi tempi, con l’Onu e tutto il resto è più difficile vendere armi, una l’abbiamo dovuta chiamare ‘dispositivo esplosivo personale’, ma sì, sono le mine antiuomo”. Uli e Therese (Iris Berben), che colpita da un ictus sa pronunciare soltanto tre parole: “in den Wolken”, sulle nuvole. Il triste e solitario Jorma Björkman (Henrik Dorsin), inventore di codici per app. In un cameo, la giallista Camilla Läckberg, gloria letteraria svedese. Davvero è meglio essere infelici in Rolls Royce che su una Panda? Non è detto.



Uscito dalla cabina finalmente in condizioni accettabili il comandante s’impunta per fissare al giovedì seguente la tradizionale “cena col capitano”, nonostante le previsioni del tempo diano tempesta. L’evitabile accade e il film raggiunge una delle sue vette demolitrici. La nave balla, la cena con ostriche e champagne non resta a lungo nello stomaco, parte una sequenza micidiale di vomitate non meno ributtanti dell’abboffata con rigetto del monumentale signor Creosote interpretato dal Monty Python Terry Jones in “Il senso della vita”. Tanto per pestare con una veemente martellata sul chiodo del denaro sterco del demonio, Östlund aggiunge alla nausea una generale dissenteria con trabocco dei cessi e la dedica speciale alla moglie di Dimitrij, Vera. Beona bizzosa e prepotente fino a costringere l’imbarazzato equipaggio dello yacht a farsi un tuffo in mare, è devastata dai conati e sbattuta dal rollìo a destra e manca sul pavimento marrone del bagno. Bon appetit. Una frustata antiborghese in toni da pochade fecale, da Buñuel strafatto di canne, mentre dall’interfono si sente il duello di citazioni tra il marxista americano Thomas e il neo-capitalista russo Dimitrij, ubriachi persi. A far tombola, la nave subisce l’assalto dei pirati e salta in aria, con una seconda dedica, stavolta a Winston e Clementine. I due arzilli mercanti di morte raccolgono orgogliosi una bomba a mano lanciata sulla tolda: “È una delle nostre”.



Naufragio, isola deserta (pare). Si salvano in pochi, Carl, Yaya, il primo ufficiale Paula, Therese che surrealmente punteggia un silenzio desolato urlando il suo mantra “in den Wolken” (tra l’assurdo e l’humor nerissimo, qui la mano di Östlund si sente di nuovo), Jorma, Dimitrij che all’inizio sospetta - “sei uno dei pirati” - un altro superstite, ovviamente il nero Nelson (Jean-Christophe Folly), e una donna delle pulizie dal nome biblico, Abigail (Dolly De Leon, merita un voto alto), spiaggiata a bordo di una scialuppa di salvataggio-capsula con acqua e cibi. Abigail sa pescare, sa accendere il fuoco, vuole e ottiene un ribaltamento dei ruoli, è lei che comanda il drappello e il potere ha i suoi benefit, sesso con Carl compreso. Yaya non la prende benissimo. Una delle due donne sembra di troppo. In una spedizione esploratrice che assomiglia a una resa dei conti, Yaya e Abigail raggiungono l’altra parte dell’isola. Altro che natura selvaggia, c’è un resort. Dalla pervasività di una crescita incapace di arrestarsi (come un tumore, dice il capitano Thomas) non ci si salva.



Con “Triangle of sadness” - da noi distribuisce Teodora in 80 copie - Ruben Östlund nel maggio scorso ha ottenuto a Cannes una generosa Palma d’oro, già vinta nel 2017 per “The Square” e sempre a Cannes, nel 2014, era stato premiato nella sezione Un certain regard il suo “Forza maggiore” (valanga minacciosa in montagna, la mamma protegge i figli, il papi scappa con i guanti e l’iPhone, evviva). Lo svedese piace, le giurie applaudono l’engagement, il messaggio. E il distillato satirico è di prima qualità, l’occhio spiazzante però in quest’ultimo film non abbonda, sono due ore e venti inzuppate di tanta (godibile e intelligente) pedagogia, mancano però gli acuti fuorinorma visti in “The Square”, come la performance “belluina”, scimmiesca di Oleg tra i tavoli di un ricevimento, un’irruzione di violenza conturbante perché rompe qualsiasi barriera o velame tra realtà e arte. Oppure la compunta, concettosa intervista pubblica di una bionda elegante molto nella parte a un “artista del nulla” squarciata dalla coprolalia di uno spettatore affetto da sindrome di Tourette, esplodente in “fai vedere le tette”, “spazzatura” e “vaffanculo”. Con uno psicologo o simile che dall’uditorio invita alla comprensione. Beffardo, ironico, devastante.

 

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