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ALLUCINAZIONI
IN ESTERNO NOTTE
BELLOCCHIO
E IL CASO MORO

di FABRIZIO FUNTÒ

(foto di ANNA CAMERLINGO)

 

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Sta per arrivare sul piccolo schermo Esterno Notte, l’ultimo lavoro di Marco Bellocchio, il 14, 15 e 17 Novembre su RAI1.

Girato in una Roma ricostruita come nell’album delle fotografie dei ricordi, il film a puntate offre un racconto della stessa tragica vicenda ripreso per tre volte, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.



La prima volta Bellocchio ci mostra il “piano istituzionale”, la vicenda vissuta dai partiti che stavano creando in quelle settimane un anacoluto logico: un governo presieduto da Giulio Andreotti, che tanti chiamavano simpaticamente Belzebù, e sostenuto esternamente, per la prima volta in assoluto, dal Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer. Contraddizione in termini – secondo Bellocchio - che racconta l’inizio di una traiettoria storica giunta fino ai giorni nostri. E qui lo schema del triangolo si raddoppia, dando vita ad una geometria che tocca Moro stesso, Francesco Cossiga suo pupillo prediletto, e il Papa.



Poi si ricomincia da capo, la seconda volta, come in una partitura musicale che vuole esplorare tutte le possibilità cromatiche di una melodia. Ed ecco il fatto rivissuto dal punto di vista delle Brigate Rosse. Il triangolo qui viene costruito fra Adriana Faranda, Valerio Morucci e Mario Moretti.

Infine, il terzo approccio, la Famiglia. E soprattutto la moglie, Eleonora (Nora o Noretta) Moro. Già in crisi con il marito, macerata dall’inquietudine e dalla conflittualità che serpeggiano in un ambiente imbevuto di cattolicesimo iper-osservante, coi figli, gli amici di famiglia, tutti che si oppongono al “piano istituzionale”. Già, perché la Famiglia lotta per riavere indietro Moro vivo, nonostante tutti i conflitti interni, mentre le istituzioni e la stessa Democrazia Cristiana (DC) – racconta Bellocchio - lo hanno abbandonato al suo destino, accada quel che accada ― vale a dire l’inevitabile. Fa da sfondo la paura che Moro, sotto “processo proletario”, racconti segreti conservati dallo Stato e dalla politica italiani.

Tre puntate doppie, in successione, per farsi una sola domanda: “perché?”.



Perché Marco Bellocchio va a ripescare questo episodio tragico e ce lo squaderna davanti, rivoltandolo e tentando di scavare nella coscienza collettiva? Qual è la necessità interiore che lo spinge a dannarsi l’anima per riproporci questo racconto a tre punte/puntate convergenti? Questa è la domanda che un bravo spettatore dovrebbe sempre porsi di fronte ad un prodotto artistico o di comunicazione, altrimenti assisterà passivamente allo spettacolo, come in quell’acquario che teniamo appeso al muro, o appoggiato sul mobile del soggiorno, a ciclo continuo.

Bellocchio ci propone, a mio giudizio, una cronaca “allucinata”. Allucinata sotto molti aspetti. Provo ad elencarli. Sono del tutto attuali.

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Prima allucinazione. Rivedere, a distanza di quasi mezzo secolo, i riti istituzionali della Prima Repubblica, i dialoghi criptici, un agire che spesso copriva pochezze personali e nefandezze istituzionali, ci porta a produrre mentalmente un confronto ieri-oggi che, implacabile per ieri, diventa addirittura insopportabile nella considerazione della politica di oggi. Se quelli erano mediocri, questi…



Ieri i politici si presentavano talvolta come mestatori scaltri di un popolo largamente incolto, che si affidava ai partiti quasi per trasporto religioso. I cattolici coi cattolici, i comunisti coi comunisti, i fascisti coi fascisti. Lotte intestine spesso al coltello, ma ciascuno a casa propria, senza commistioni.

Le frontiere che al tempo separavano e spartivano il mondo in blocchi erano riprodotte in ciascuno stato come scontro fra partiti politici e fra ideologie. E, se non ricordo male, allora il Partito Comunista Italiano (PCI) era il maggiore partito comunista del mondo occidentale. Erano frontiere ideologiche, barriere mentali, congestioni di pensieri. Il mondo si divideva fra comunisti e anticomunisti, non fra fascisti e antifascisti.

Quando nacque il terrorismo, in Italia e in Europa, i partiti comunisti ortodossi fecero di tutto per scrollarsi di dosso una parentela non voluta, e sempre respinsero l’accusa che il brigatismo coltivasse il loro stesso album di famiglia. Le Br però si ispirarono anche ai libri di ricordi dei comunisti in esilio a Parigi durante il ventennio fascista: stesso tipo di organizzazione cellulare, stesso sentimento di essere un esercito in clandestinità, stesso anelito rivoluzionario. Leggete i ricordi, ad esempio, di Camilla Ravera, e poi ne riparliamo.



Le parole d’ordine, per i terroristi, non erano cambiate: come se il fascismo fosse reincarnato nella Democrazia Cristiana, il Partito di cui Aldo Moro era presidente nel momento in cui è stato rapito, e anche nel Partito Comunista (più “socialfascista” che fascista” per le BR, secondo una teoria sciagurata in voga nella III Internazionale comunista durante gli anni ’30 del secolo scorso). Un mondo allucinato, appunto. Oggi noi spettatori oltreché saperlo lo “sentiamo” epidermicamente. Vediamo quei personaggi di allora, i Cossiga, i Leone, perfino Luciano Lama, come figure tragiche, talora ridicole, proprio perché inadeguate rispetto ai compiti storici che avevano.

Seconda allucinazione. Questa è tutta di Marco Bellocchio. Il regista equipara le Brigate Rosse ad un’avanguardia armata del Movimento di contestazione e ribellione che ha scombussolato in quegli anni la nostra società, e un po’ tutte le società del mondo capitalistico occidentale.

Nel film, quando Aldo Moro viene rapito, si vede in contrappunto un’aula universitaria che esplode di gioia e che inneggia alle Brigate Rosse. Quando nel film si tratta del “Movimento”, questo viene fatto parlare per bocca di esponenti dell’ ”Autonomia Operaia”, un gruppetto assolutamente minoritario di “durissimi e purissimi” comunisti extraparlamentari, ma che non era in alcun modo la “voce” del Movimento. C’era ben altro, in pentola. Quelli erano esaltati, che hanno contribuito alla distruzione di tutto.



In un film che tratta di tre piani convergenti nell’unico punto cruciale, l’assalto alla scorta e la cattura di Aldo Moro, forse non c’era tempo per un’analisi più raffinata. Ma Bellocchio non riesce, su questo versante, a esprimere il tormento che attanagliò non solo il PCI e la FGCI ― coerenti con il mondo parlamentare istituzionale (i democristiani sapevano che il PCI era un partito d’ordine, come e più del loro) ― quanto tutta quella sinistra ribelle, extraparlamentare, creativa, che costituì una “specificità” italiana, calderone che bolliva e che tentava di trasformare, reindirizzare le deficienze nazionali verso uno Stato Moderno, solidale, giusto, emancipato. Tanto da far ritenere che forse fosse quello il vero bersaglio di forze internazionali che tiravano i fili.

E qui sta il vero punto di tutta la questione. La risposta al nostro “perché” iniziale. Ma ci arriviamo con calma. Ci torniamo fra breve.

Terza allucinazione. Consiste nella tecnica narrativa, che Bellocchio usa sapientemente, e che costituisce un secondo livello che si mischia al racconto. Il film stesso si apre con una allucinazione, quasi che il regista voglia segnalare subito, allo spettatore, che ne farà uso nei momenti cruciali.



La prima scena di questo terzo movimento parla proprio di un Aldo Moro rilasciato dalle BR, in un letto di ospedale, visitato dalla “trimurti” della direzione democristiana. Non è mai successo, Moro è morto, ma sarebbe potuto accadere. Anzi, sarebbe dovuto accadere. Attraverso questo piano allucinatorio, Bellocchio ci dice la sua. Ci suggerisce il pensiero recondito suo o dei suoi protagonisti.

Perché, nell’allucinazione, il codice segreto usato nei linguaggi della politica e delle istituzioni funziona al contrario dei sogni. Nei sogni, secondo Sigmund Freud, il “lavoro onirico” ― vale a dire l’attività inconscia di generazione di un racconto allucinato ma che rispetta un codice simbolico tutto sommato coerente e pertanto “interpretabile” ― lavora per attutire i contrasti interiori, i problemi, le spine che ci angosciano e che ci porterebbero a svegliarci, nel tentativo di farci dormire e riposare il più a lungo possibile. Il sogno ― diceva il grande psicanalista austriaco ― è il guardiano del sonno.



La tecnica allucinatoria usata da Bellocchio invece decodifica la cripto-ritualità della politica italiana e rende esplicite cose che dovevano essere celate a tutti i costi.

E torniamo adesso a riconsiderare il “perché” che ci eravamo posti all’inizio.

Il rapimento, e soprattutto l’uccisione di Aldo Moro, costituiscono, nella storia del nostro Paese ― e ancor più nella storia della “sinistra” italiana ― il Punto di Non Ritorno, il “tipping point”.

L’inizio della fine.

Il convoglio politico del “compromesso storico” di Berlinguer, che viaggiava sui binari delle “convergenze parallele” di Aldo Moro, arrivava al suo capolinea con il governo di Giulio Andreotti.

Aldo Moro ne era l’architetto. Forze nascoste che agivano in quel momento in tutte le società occidentali per trasformarle in chiave globalista e neocapitalista vedevano nella sua morte la rimozione del problema.



Berlinguer aveva lanciato quel convoglio dopo la lezione del golpe in Cile dell’11 Settembre (data tragica nei nostri calendari) del 1973.

Quel golpe non era robetta. Era un laboratorio per tutte le società occidentali. La grande destra finanziaria, le forze economiche e politiche più imponenti del pianeta che si arrogano il diritto di modificare e sconvolgerne gli equilibri economici e sociali a proprio uso e consumo, avevano individuato nel Paese sudamericano guidato dall’ultra-socialista Salvador Allende il terreno di imposizione di una ricetta che poi sarebbe stata proposta a tutto il mondo: il “neoliberismo”.

Privatizzazione e precarizzazione, pugno duro contro i “movimenti” ed il comunismo, destrutturazione politica dei localismi in omaggio alla “globalizzazione”. Qualcosa che poi abbiamo vissuto in prima persona noi europei, quando l’ondata forte è arrivata e la si è percepita anche durante la costruzione dell’Unione Europea. Uno tsunami.



L’idea di Aldo Moro era creare una transizione sociale italiana oculata verso la modernità. Aveva il partito pieno di ferri vecchi, fermi come mentalità all’800. Lui stesso era un uomo del passato. Usava il codice ottocentesco anche nelle sue lettere. E si può ritenere che quando scriveva “Famiglia” in quelle missive Moro pensasse a volte ai suoi cari, ma più spesso a questa sua strategia, perorata da quella parte del suo Partito, della sua Famiglia politica, che lo sosteneva. Compresi i comunisti in cerca di inclusione istituzionale.

L’Italia era il Paese del muro di gomma, del Gattopardo. Del: cambiamo tutto per non cambiare niente. In altri Paesi occidentali lo scossone della ribellione giovanile aveva portato a riforme significative dello Stato, dell’economia e della Pubblica Istruzione. In Italia, poco o nulla.

L’Italia era stata bloccata dal fattore Scudo&Croce e dal fattore Kappa. Per decenni.

È ancora così? L’elettorato e i cittadini sono ancora alla ricerca di qualcuno che riesca a scomporre il codice segreto e ― a globalismo sulla strada del tramonto ― ricomporne uno a misura di Uomo moderno.

Ai telespettatori l’ardua sentenza.






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