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BRAIBANTI
E LE MADONNE PELLEGRINE
UN BELL'AMELIO
CON SCIVOLATA

di ANDREA ALOI

Palazzaccio di Roma, metà anni Sessanta. Lo Stato processa il professor Braibanti Aldo, nato a Fiorenzuola d’Arda nel Piacentino il 17 settembre 1922, commediografo, poeta, film maker, collaboratore dei 'Quaderni Piacentini', già militante del Pci, mirmecologo - ovvero esperto e appassionato di formiche - e tanto altro. Un uomo asciutto nel corpo e nelle parole, per molte udienze resterà muto. La Repubblica lo persegue per il reato di plagio, così configurato nel Codice penale all’articolo 603: “Chiunque sottopone una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione è punito con la reclusione da 5 a 15 anni”. Mai nel nostro Paese quel reato introdotto in epoca fascista, indistinto, incostituzionale, era stato evocato, mai più lo sarà. Braibanti è omosessuale, l’accusa è strumentale, ci sono piuttosto da difendere i “buoni costumi" dal terribile morbo della diversità. L’Italia delle Madonne Pellegrine, tradizionalista nel senso più deleterio, omofoba, clerical-fascista, ancora ingolfata di pregiudizi ha trovato in Braibanti il bersaglio perfetto. Il professore, secondo i difensori della morale, ha plagiato-sedotto due giovani, costringendoli ad atti osceni e “contronatura". Depongono in aula, uno conferma le accuse, con toni da illuminato tornato sulla retta via della purezza e della fede chiede di poter rendere dichiarazioni a porte chiuse. L’altro, amico, allievo, amante di Aldo, manco accenna a una difesa: “I processo è assurdo, non c’è nessun colpevole perché non c’è nessuna colpa”. Il ragazzo ha i capelli tagliati male, come li tagliano male in manicomio, porta sulle tempie i segni delle bruciature provocate da molti elettroshock.



È il momento più emotivamente vibrante di un film che avvince, “Il signore delle formiche” di Gianni Amelio. Il regista di “Colpire al cuore” “Il ladro di bambini” “Così ridevano” (Leone d’Oro a Venezia nel ’98), “Lamerica” “Hammamet”), a settantasette anni ha firmato un lavoro d’alto respiro e dolente, pieno di misura e, nei passaggi in cui erompe una campagna piacentina assolata di panica e libera potenza oltre le umane miserie, visivamente lussuoso. “Liberamente ispirato a fatti accaduti in Italia negli anni Sessanta” si legge all’inizio, di fatto l’aspra vicenda di Aldo Braibanti e di Giovanni Sanfratello, il ragazzo “curato” dalla famiglia con barbari trattamenti psichiatrici durati quindici mesi per guarirlo dal “vizio”, è ripercorsa abbastanza puntualmente, con alcune eccezioni, una, si vedrà, discutibile.

La storia. Aldo (Luigi Lo Cascio) conosce Ettore Tagliaferri, un nome di fantasia perché così ha voluto la famiglia di Giovanni Sanfratello, in un casale con torre un po’ teatro di prova, centro sociale ante litteram, atelier d’arte dove il professore vive e impera, curando i suoi terrari gremiti di formiche e animando le giovani menti più sensibili del luogo. Severo, affascinante, Braibanti è visto con gran sospetto dalla famiglia di Ettore, la madre e il fratello maggiore Riccardo cercano di dissuaderlo: il cenacolo, lo “strano” professore (qualcosa dev’esserci stato tra lui e Riccardo) sono una pura sciagura, Ettore, interpretato dal sorprendente e intenso Leonardo Maltese - l’anno prossimo ancora sugli schermi ne “La conversione” di Marco Bellocchio incentrato su Edgardo Mortara, il bambino ebreo il cui rapimento da parte del Vaticano nel 1858 divenne un caso internazionale -, deve continuare gli studi di Medicina, non inseguire il miraggio di diventare pittore. Il professore lo invita a seguire la sua vocazione e i due, ormai la relazione tra loro è cresciuta, vanno a vivere in una pensione a Roma. Da lì Ettore viene letteralmente rapito, è il ’65, su ordine dei familiari per essere internato, i suoi 25 anni non gli danno alcun diritto di decidere, di scegliere. Un delitto d’onore vero e proprio: la vergogna di avere un figlio omosessuale è socialmente insopportabile. Il ragazzo apparirà - devastato - al processo, cui si giunge dopo la denuncia per plagio di Braibanti, e negherà di essere mai stato soggiogato. Ha la mente ormai bruciata, distrutta, il cuore è limpido. Vittima sì, ma non di Aldo, bensì della madre, terrificante figura di reazionaria sessuofobica, ideale per suscitare nello spettatore sincere ondate d’odio. Lei sì che meriterebbe un processo per i reati compiuti, a partire dal sequestro di persona. Amelio ne fa un emblema del male assoluto e castrante, sovraccaricando, senza mezze tinte, la recitazione di Anna Caterina Antonacci, soprano di gran vaglia prestata al set, una maschera livida e truce ai limiti della caricatura.

Aldo Braibanti è in carcere, il processo va avanti senza un suo intervento. Tace e Lo Cascio scava da par suo in quel silenzio. È un uomo più che annichilito profondamente offeso, partigiano a Firenze durante la guerra, è stato arrestato due volte, tutti i suoi scritti fino al ’40 sono stati sequestrati dalle SS e andati perduti. La Repubblica che ha contribuito a far nascere lo ripaga con un’accusa folle di oscenità, accusa semplicemente oscena in sé. Un cronista dell’Unità, Ennio Scribani (Elio Germano) prende a cuore il caso, forse perché intimamente vicino alla tragedia di Braibanti, gli parla, lo convince a difendersi. Il “signore delle formiche”, alla fine verrà condannato in primo grado a nove anni, ridotti a quattro in appello, poi a due per i meriti da partigiano, senza però esser sgravato dalla colpa. Scribani nell’imminenza della sentenza si accinge a scrivere un ultimo articolo, il direttore dell’Unità di cui non vien detto il nome, tra il supponente e il pienamente insensibile, lo informa che altri se ne sono già occupati. Il giornale del PCI ha altre priorità, la difesa dei “viziosi” serve solo a perdere immagine e voti, può irritare la classe operaia. Giovanni Visentin conferisce all’innominato direttore la dose giusta di antipatia.



E qui il “liberamente ispirato” diventa “molto, molto liberamente ispirato”, Gianni Amelio non si limita a tradurre e a dare una personale lettura, deforma in modo saliente i fatti. Vediamoli. Nel ’68 a guidare l’Unità era Maurizio Ferrara, padre di Giuliano e comunista italiano a tutto tondo, pregi e limiti compresi. Certo, il Pci è stato storicamente timido nell’abbracciare la causa delle libertà civili “borghesi” e delle minoranze, si pensi solo all’aborto e al divorzio, ma dopo qualche esitazione ha lottato convintamente al fianco delle forze laiche progressiste. Detto questo, nel caso Braibanti rimane a testimoniarlo la carta dell’Unità che, come sempre accade, “canta”, al di là di qualsiasi possibile sospetto su un Pci tiepido nei confronti dell’ex militante di rango uscito anni prima dal partito in polemica con lo stalinismo ben vigente fino al XX Congresso del Pcus. Intanto segnaliamo tra gli articoli del cronista di giudiziaria Paolo Gambescia (anch’egli col freno a mano tirato all’inizio) quello intitolato “Il processo è una montatura”. È l’estate del ’68. Il 13 luglio prende la parola Maurizio Ferrara, quello vero, non il burattino della conservazione dipinto da Amelio. Il suo editoriale s’intitola “Processo aberrante”. Alcuni passi, il primo sul reato stesso di plagio: “È parere comune di giuristi che questo sia un reato o inesistente o praticato comunemente da chiunque (uomo o donna che sia) abbia una personalità ideologica talmente spiccata da indurre altri a farsi suo apostolo e seguace”. Ancora: “Ne è nato un processo aberrante, un rilancio dei temi dell’lnquisizione, una chiassata avvocatesca di tipo razzista (…). Se c’è infatti qualcosa di marcio che il processo Braibanti sta dimostrando, non è tanto l'esistenza dell’omosessualità, quanto la ferocia razzista, il dileggio becero, l’odore di linciaggio che il suo sospetto scatena in ambienti nei quali la ‘morale’ s’identifica con il moralismo più oscurantista e repressivo; tanto più spietato quanto più ipocrita e attestato su una tradizione benpensante marcia fino alle midolla, che scatena, ogni giorno, drammi e contraddizioni laceranti”.


(Gianni Amelio)


Sembrano parole chiare, ringraziamo Michele Anselmi per il ripescaggio e dispiace che tra i produttori del film figuri un Bellocchio stavolta abbastanza disattento. Braibanti, intellettuale senza etichette, morirà povero in terra piacentina a 91 anni, nel 2014. Alla stessa data Amelio fa coming out ed esce un suo bellissimo documentario, “Felice chi è diverso”, citazione dai noti versi di Sandro Penna: “Felice chi è diverso / essendo egli diverso. / Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune”. Il doc si compone di interviste a diciannove anziani omosessuali e a una donna transgender, che parlano a ruota libera della loro infelice, penosa situazione negli anni del dopoguerra, quando per i gay dura era la vita e condita di vergogna, impedimenti, coltri di colpa, beffe malevole.

Che Italia era negli anni Sessanta del caso Braibanti? Era un Paese dove si trovava in edicola l’opuscolo “satirico” intitolato “Manuale del finocchio. Come vive, chi frequenta, come seduce, come eccetera eccetera…” e gli appellativi per gli omosessuali andavano da pederasta a invertito a terzo sesso. Sulla stampa agli inizi del decennio della “contestazione generale”, incredibilmente aveva furoreggiato lo scandalo dei balletti verdi nel Bresciano, con tanto di indagini giudiziarie e seguìto golosamente dalla stampa, vedi il Giornale di Brescia dell’ottobre ’60: “Da parecchio tempo si parlava in città di una vasta operazione intrapresa dagli organi investigativi per bloccare un dilagante circuito del vizio, in cui si trovavano coinvolti uomini di giovane e meno giovane età. Le notizie relative a convegni immorali, a trattenimenti di genere irriferibile, ad adescamenti ed a corruzioni e ricatti sono ripetutamente giunte fino a noi”. Balletti di uomini con uomini, verdi perché era il colore del garofano all’occhiello di Oscar Wilde (a proposito di persecuzioni e processi indegni).



Un po’ la società italiana sta cambiando, c’è attrito fra spinte libertarie (modernizzazione, industrializzazione, boom economico ne gonfiano le vele) e sclerosi reazionarie. Si grida in Parlamento: i costumi sono corrotti, il Paese è in allarme. Il socialdemocratico Bruno Romano presenta una proposta di legge che punta a rendere reato l'omosessualità, col pretesto di proteggere i minorenni dalla corruzione. E analoga iniziativa l’aveva già presa il Movimento Sociale. Alcuni sospetti vengono inquisiti, tra loro il giornalista e scrittore Giò Staiano, gay dichiaratissimo (e in seguito prima transessuale d’Italia) e per questo indagato. Nessuno andrà a processo e lo scandalo si rivelerà una montatura, forse orchestrata in ambienti di una destra estrema piuttosto vivace nel periodo, se ricordiamo lo scandalo Sifar e il Piano Solo del generale De Lorenzo, anno 1964. Ad alimentare la psicosi ossessiva del gay intento a sabotare le oneste radici della società, le false notizie che annunciavano la scoperta di inesistenti balletti verdi in decine di città italiane. Così chiacchierata la storia, da venir citata in un episodio diretto da Franco Rossi nel film del ‘65 “I complessi”, con Ugo Tognazzi nel ruolo di Gildo Beozzi, burocrate dc ultramoralista finito senza volerlo nel balletto verde organizzato in una villa fuori Piacenza a causa di una serie di equivoci, il tutto aggravato dall’irruzione della polizia mentre un giovanotto effemminato chiede a Gildo stupefatto: “Sei corolla o pistillo?”. Un contrappasso formidabile. Per dire degli stereotipi, ancora Tognazzi e un Gassman coi capelli ossigenati, sdraiati al sole in riva al mare ed entrambi in vena di mossette, compaiono nell’episodio “Latin lovers (amanti latini)” del capolavoro satirico di Dino Risi “I Mostri”, anno 1963. Sono passati sessant’anni, le mentalità si evolvono, certe battute non si fanno più, si esagera perfino con l’autocensura. Da allora molte pagine sono state girate. Non tutte.






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