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RITORNO
A NAPOLI
LA NOSTALGIA
DI MARTONE

Il regista continua un percorso napoletano che nel giro di pochi anni ha proposto “Il sindaco del rione Sanità” e nel 2021 il delizioso “Qui rido io”.

di ANDREA ALOI

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La nostalgia è un uncino dolce-feroce, una lama che da un verso accarezza e dall'altro uccide. Felice Lasco se n’è fuggito adolescente da Napoli a caccia di un’altra vita e dopo Beirut è approdato al Cairo. In capo ai suoi quarant’anni di esilio è un imprenditore affermato nel settore edilizio, convertito all’Islam e felicissimamente coniugato con una dottoressa egiziana, quanto basterebbe per tenere a bada nel cassetto umori e pensieri che lo avvincono al “suo” rione Sanità. Ma arriva il momento del nostos, del ritorno, le radici e un’anziana madre lo chiamano a un saluto, forse al saldo di un addio.

Ma fin dall’abbrivio “Nostalgia”, il nuovo, toccante film partenopeo di Mario Martone, protagonista un cangiante, onnipotente Pierfrancesco Favino da dieci e lode, si carica di attese, di addizioni ineluttabili. E il ritorno - non appena Felice lascia l’albergo ipermoderno (un classico non-luogo) per una cena nel ventre di Napoli - diventa una riscoperta di colori, di vite, di angoli da “bere” avidamente. È un intimo risveglio che poco alla volta lo invade, dominandolo. Si può riavere il passato? Tornarci dentro da capo a piedi? La città sembra uguale, nei suoi graffi, nel suo brulicante, adorabile e stordente disordine. La risposta è sì, si può.

Nella Napoli sordida e nitidamente umana delle botteghe da poco, del commercio di miserabili che si vendono per vivere come ne “La pelle” di Malaparte, nulla manca, compresa la guerra vera e dichiarata tra i mazzieri della camorra, subito all’opera in una scorreria con omicidio, e la direzione ostinata e contraria di un prete di strada che draga vicoli e saliscendi e palazzi di mille rughe per slacciare ragazzi e ragazze da un destino di delinquenza, spesso accettato come lascito familiare: “Mio padre non vuole che impari a suonare il violino, devo diventare contrabbandiere come lui”.

Eccoli i due nemici mortali, Don Luigi Rega, (Francesco Di Leva, asciutto, potente) e il malommo Oreste Spasiano (Tommaso Ragno, chiaroscuri ben giocati). Uno ha trasformato la sua parrocchia in un porto aperto dove si celebrano messe e concerti di una giovane orchestra, e la sagrestia è una palestra; l’altro governa affari e quartiere da recluso iperprotetto. Il nostos di Felice inizia dalla madre Teresa (Aurora Quattrocchi), ha venduto per una miseria il vecchio appartamento ed è scesa al pianoterra, pochi metri, poca luce. Felice le affitterà una casa degna per addolcirle gli ultimi scorci di vita col profumo di un albero di limoni, dopo averla accudita con adulta tenerezza. Il momento in cui la invita a spogliarsi per un bagno e la solleva per deporla in una grande tinozza di plastica, è semplicemente indimenticabile: una dolcissima Pietà dove s’invertono i ruoli e la madre non tiene in grembo il figlio, ma viene accolta e si abbandona tra le sue braccia.

“Nostalgia” offre mille scorci struggenti e verticali di scale e cielo, i mercati, le trattorie quasi ricavate in un basso, l’occhio in stato di grazia di Martone è assecondato degnamente dalla fotografia “calda” di Paolo Carnera, seppiata nei flash back. Per Felice, che poco alla volta dimentica l’accento arabo-francese e recupera le cadenze della lingua natìa, è un nuovo re-innamoramento implacabile che innesca il desiderio di far casa a Napoli per sempre, ma il contagio è pure dello spettatore, immerso nella diversità tanto difficile quanto vera di una vita al suo potente grado zero mascherato dal troppo (di sentimento, di fatalità, di sogni e di incubi). Napoli è calamita, è schiaffo e insieme abbraccio. Non è forse legato in modo indissolubile al suo quartiere don Luigi? Accoglie immigrati, ricuce esistenze, accende candele per indovinare una luce, fedele alle parole del Cristo nel Vangelo secondo Matteo: “Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno”.

Sa, da sacerdote consacrato agli ultimi, che il malommo Spasiano è “il” nemico, conosce la giungla dei vicoli, il dominio esercitato col controllo e la minaccia. Tanto che allibisce quando Felice, ormai incapace di tenere per sé un macigno, gli confessa che proprio Oreste, il capobastone, era stato il suo amico di corse in moto e furti, uno dei quali finito male con la morte di un vecchio, ucciso dal giovane Spasiano. Omicidio rimasto impunito. “Vai via”, lo supplica il prete, sa che Felice, depositario della scomoda verità, è un bersaglio, neppure l’antica amicizia può salvarlo. Neppure un incontro con l’amico malommo. Nella deriva di una carriera violenta non si può accettare che per il rione Sanità passeggi un possibile esiziale testimone, pur se garantisce il silenzio.

Con “Nostalgia”, tratto dal libro omonimo di Ermanno Rea e sceneggiato con la moglie Ippolita di Majo, Martone continua un percorso napoletano che nel giro di pochi anni ha proposto “Il sindaco del rione Sanità” (2019) da Eduardo, protagonista Francesco Di Leva, là nel ruolo di “uomo di panza” duro e autorevole (scrive Eduardo: “Teneva il quartiere in ordine. Venivano da lui a chiedere pareri su come si dovevano comporre vertenze”) e nel 2021 il delizioso “Qui rido io”, con Toni Servillo mattatore assoluto nei panni dell’attore e commediografo Edoardo Scarpetta, il Felice Sciosciammocca di “Miseria e nobiltà”. Produzioni d’alto livello e ben accolte dal pubblico, a ribadire la fertile attrattività di Napoli per il cinema - sempre l’anno scorso è uscito “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino - e l’inesauribile, ricca vena della scena partenopea, da Nello Mascia a Lino Musella, da Teresa Saponangelo al giovane Edoardo Scarpetta, ultimo robusto ramo di una gloriosa dinastia.

La Napoli scura, inquietante, ipogea, già evocata da Martone nel “Giovane favoloso”, con Leopardi (Elio Germano) vagante tra femminielli e lupanari, prova con “Nostalgia” a illuminarsi nel sorriso di una giovane “salvata” del rione Sanità che ha studiato e fa da guida ai turisti nelle catacombe costellate di teschi: ancora morte e riscatto, vicini. In un pomeriggio di sole e quiete risuonano, nella corte della parrocchia popolata da ragazzi multicolori, la melodia e i ritmi sensuali di una canzone araba. Se ne bea Felice, figlio del Mediterraneo, danza e crede di aver ricomposto paradisiacamente la sua vita. Senza più cicatrici. Un attimo di pace celeste che resta nel cuore.





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