Premessa
C’è chi sostiene che il film sia morto, e che morendo abbia partorito le serie televisive.
Per giustificare questo assunto, spesso si adduce il fatto che lo spazio narrativo di una serie televisiva assomiglia di più a quello del romanzo, mentre il film è stretto nelle unità compositive aristoteliche e si deve risolvere nel giro di alcune decine di minuti.
Io non sono d’accordo.
E non lo sono tanto più guardando la produzione italiana. Sia cinematografica che delle soap. Et, in arcadia, UPAS.
Purtroppo, ho frequentato l’ambiente del cinema italiano, e per sfortuna ho frequentato anche l’ambiente di Hollywood. Non posso fare paragoni sulla quantità e qualità, ma permettetemi di farli sull’approccio. Questo sì. E procedo con la disamina.
Punto primo. Là, oltreoceano, si fa sul serio. L’industria dell’intrattenimento è uno dei fattori trainanti del Paese, o almeno di alcuni Stati, come sicuramente è per la California (ma recentemente si è estesa ad altri luoghi, come il Texas ed il Nevada). Dovete sapere che nel mondo l’industria dell’intrattenimento ha superato qualunque altro settore di mercato, più dell’industria, più dell’energia. È il primo mercato mondiale, altro che tubi, acciaio, Fiat, ILVA e compagnia cantando. E in quel settore, quello dei videogiochi è superiore a tutti gli altri messi insieme (televisione, cinema, musica, teatro etc.)
E questo, il popolo, le banche, gli investitori, il governo e il parlamento americani lo hanno compreso da circa un secolo. Con tutte le conseguenze del caso. Da noi è “arte”. Una cosa vicina ai saltimbanchi, agli spostati di testa, agli artisti lunatici coi baffi alla Dalì. Tutti gli sfaccendati di questa landa, se hanno un gancio in famiglia nel mondo del cinema e della televisione, si autoproclamano attori. Se sono più furbetti o bruttini, registi. Chi ha il cugino con una telecamera, è già per questo solo fatto un cameraman di fama mondiale.
Scherzo, naturalmente. Ci sono varie scuole di cinema, anche quotate, in Italia. Ma gli studenti più bravi raramente perdono tempo in questo Paese, dietro la marea di cialtroni che intossica l’ambiente cinetelevisivo. Vanno là dove li porta la professione.
Un investitore, negli Usa, non ha bisogno di farsi convincere: ha una squadra di gente coi controfiocchi in grado di leggere le sceneggiature che sottopongono produttori fidati, i quali a loro volta hanno già fatto una sapiente scrematura. Gente in grado di discutere con loro i termini del finanziamento della portata minima di 89-100 milioni di dollari. Star escluse. Qui ci siamo dovuti inventare i sostegni di stato, i tax credit, le agevolazioni, le film commission che pagano location e catering, le Regioni che ci mettono del loro per farsi pubblicità e attirare le produzioni, e chi più ne ha più ne metta ― ma nessuno di loro è in grado di leggere e valutare le reali potenzialità di una sceneggiatura. Si va per amicizie, di solito, e per correnti di partito. Ed il budget di un film raramente supera i milioni che si possono contare sulle dita di una mano. Con il bel risultato che quando la produzione ha portato a casa tutti i benefit, le agevolazioni, i bonus, ha fatto il colpaccio. Poi, del film, non gliene frega più niente a nessuno.
Esattamente come avviene per i roboanti progetti europei, strafinanziati a Bruxelles, e che ― intascato il conquibus ― diventano sempre più evanescenti e non portano mai a niente. Tanto non controlla nessuno.
Ah!, piccolo particolare: oltreoceano i film vengono tutti assicurati prima di dare il primo giro di manovella. Ed il costo dell’assicurazione dipende proprio dalla lettura della storia, dalla composizione del Cast e della Crew, dalla fama del regista e dei produttori. Pertanto, l’investitore di Hollywood in realtà non perde mai i soldi che investe. Neanche se la produzione si interrompe ed il film va a ramengo. Ma vallo a far capire agli italici…
Punto secondo. L’approccio, dicevo. A Hollywood anche il più stupido degli sceneggiatori o dei registi-scrittori si chiede: “Ma io perché sto scrivendo questa storia? Che ruolo ha questa storia in relazione alla cultura, al mondo e con me stesso? Perché è necessaria ed indispensabile?”. E se lo chiede non tanto perché é più coscienzioso di un parigrado europeo, ma perché lì si fa sul serio, e il più stupido degli investitori gli farà quelle domande, per capire quanto solido e determinato è chi propone il film, e quanto quel “business” (perché il film è metà arte e metà business) sia fondato.
Ma volete che un rampollo di buona famiglia, diplomatosi in una scuola delle tante scuole di cinema che sono fiorite ogni dove nella provincia italica, si ponga questo problema? Ed è meglio ― tutto sommato ― che non se lo ponga. Perché, se lo fa, ecco che la storia narrata dal film o dalla serie riproduce esattamente la sua storia personale, inessenziale per la stragrande maggioranza del pubblico del vernacolo.
Così abbiamo attori-registi, rinomati e altisonanti, che scrivono loro le storie, sempre guardandosi l’ombelico o con una trama esile a piacere (che importa?), scrivono loro i dialoghi (negli Usa sarebbe un peccato mortale, esistono i “dialoghisti” per questo, è compito loro creare le battute!), vanno loro dietro la macchina da presa e talvolta si scrivono da soli persino le musiche. L’Artista cinematografico italiota è un “fo tutt’io”, altrimenti che artista è? E lo stesso vale per le telenovela, che mettono il pubblico nostrano dietro l’acquario dello schermo televisivo, mostrando loro dei pesci che sono loro stessi, dall’altra parte dello schermo. In una catena infinita di rispecchiamenti.
Napoli ha poi la tradizione della sceneggiata, alla quale ho avuto l’onore di partecipare una volta, per una giornata intera, in un teatro partenopeo, in mezzo a famiglie con bimbi e carrozzine con tutto l’armamentario per pranzare e poi cenare in teatro, guappi sul palco che riproducevano sempre la stessa trama all’infinito, e quando usciva il mascalzone di turno (dovrei dire il villain) della storia, via al lancio di generi alimentari al suo indirizzo. Ecco, il concetto è quello: ti faccio perdere tempo con trame da fumetto dell’Intrepido, passi ore a seguire storie tutte uguali, e così passa il tempo. E questo passa il convento.
Terzo e ultimo punto. Registi e attori italiani (mi limito a queste due categorie, ma potrei estendere) se posti in una produzione italiana, fanno quello che vogliono loro (ah, gli Artisti!) e sembrano degli incapaci. Battute buttate via il più presto possibile, recitazione scadente da filmino del matrimonio, mimica sopra le righe, scene inessenziali che prendono un posto centrale nella narrazione, perché “c’è quella cosettina lì che mi piaceva tanto”, trame inconcludenti o, se va bene, una serie di gag senza costrutto. Fine della disamina.
Naturalmente, salvo due o tre registi, e due o tre attori di vero e genuino talento. Rarità. Ora, è chiaro che in un panorama del genere, investitori seri non ci si mettono neanche a perdere tempo. Al massimo, usano la fornace delle produzioni italiane per riciclare un po’ di denaro e creare fondi neri. E non storcete il naso, le cose bisogna saperle, per parlarci sopra. E scrittori seri cercano fortuna altrove. In più, c’è il fenomeno anomalo dello Stato, attraverso la RAI, che ha la sua “società di produzione” e distribuzione cinematografica. Omissis, omissum, omissibus.
Meglio un bel film alla vecchia maniera. Aristotelico, conciso, fulminante. O un romanzo avvincente, che ti lascia qualcosa dentro. Per giorni e mesi. E chissà che alla fine non ne scriva uno anche io. Per disperazione.