I segreti
dei grandi
cuochi
Ristoranti e ricette
di un'Italia antica
Una recensione di
MASSIMO CECCONI
Nel 1968 Franco Angeli Editore pubblica, dopo il grande successo della precedente, la seconda edizione "aggiornata e ampliata" di "I segreti dei grandi cuochi" di Giorgio Colorni che, per chi fosse interessato, si può trovare ancora oggi in rete o sulle bancarelle di libri ormai antichi.
Un bel tipo, ricco di colori, sapori e umori Giorgio Colorni che, nella prefazione al libro, Gianni Brera descrive così: "Conosco Giorgio Colorni dai giorni lontani, ahi, d’una tumultuosa calata a valle. Era magro, ossuto, vivace. Due occhi scuri e fondi garantivano della sua serietà interiore. Ma l’impianto morfologico era del traccagno padano; la mandibola, i denti e la bocca promettevano sfracelli al primo possibile indugio intorno a una tavola vera".
"I segreti dei grandi cuochi" è un viaggio nei locali e nelle cucine di quelli che, a quel tempo, rappresentavano al meglio la ristorazione nazionale.
I ristoranti descritti sono 60 (in verità 63 perché in alcuni casi ci sono esercizi correlati), in gran parte collocati nel Nord e nel Centro del Paese, in rappresentanza dichiaratamente limitata di regionalità e persino di internazionalità.
Poco meno della metà dei locali allora recensiti esistono ancora, magari con caratteristiche culinarie diverse, rappresentanti comunque di un territorio e di un modo di fare cucina.
Colorni non si limita a segnalare, racconta con spirito narrativo luoghi e architetture, curiosità e particolarità, segreti o presunti tali di cuochi (quasi tutti uomini) che amano interpretare ma anche manifestare il proprio lavoro.
Scrive ancora Brera: "Seguendo i suoi estri di mangiatore gagliardissimo e non mai sprovveduto, Giorgio Colorni ha viaggiato il mondo intero, alla fine approdando come tutti nel paese natio: e proprio qui - ad occhi fiduciosamente socchiusi - ha goduto la beatitudine umana della sosta tra gente amica, del ricordo ancor grato e non retorico, tanto meno angoscioso".

I segreti dei grandi cuochi
di Giorgio Colorni
Franco Angeli editore
La prosa di Colorni è di buona, spesso di ottima letteratura. Sentite cosa scrive di Evio Battellani, patron di "Al Cantunzein", ristorante bolognese che non esiste più: "Evio Battellani è un romagnolo di Mordano, quarantacinquenne. Ha cominciato per sbaglio, dice, a fare il ristoratore. Da giovane lavorò in campagna ('Ho fatto tutti i mestieri fuorché quello del ladro'). Dopo la guerra venne a Bologna, cameriere in un locale notturno". Dei suoi esordi di ristoratore ricorda: "Sapevo mica niente - dice l’Elvio - mi chiedevano del roast-beef e io gli portavo del vitello".
E Colorni racconta con dovizia di particolari i suoi viaggi: "Ed eccomi qui, dopo una corsa in auto di qualche centinaio di chilometri lungo l’infernale litoranea adriatica", giusto per raggiungere il ristorante Beccaceci a Giulianova in Abruzzo, e anche questo non esiste più.

Esiste ancora invece, in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano, il mitico ristorante Savini che, tra quelli segnalati, è decisamente il più caro (il prezzo medio di un pasto si collocava allora tra le 5 e le 6 mila lire, come dire, rivalutato ai nostri giorni, una quasi inezia di 50/60 euro di oggi).
La scheda inizia così: "Nessuno a Milano si sognerebbe di dire 'il teatro alla Scala', o 'il carcere di San Vittore' o 'lo stadio di San Siro': basta, per intendersi, dire la Scala, San Vittore o San Siro. Allo stesso modo non sentirete mai parlare del 'ristorante Savini'. Basta 'il Savini', con l’articolo davanti come è abitudine dei milanesi, i quali articolizzano tutti i nomi: il Gianni, la Mariuccia, il Carugati".
Tra le ricette del Savini, il Colorni trascrive quella del "Bottaggio del maiale" (che poi sarebbe la cassoeula), dei "Messicani alla milanese" e, va da sé, degli "Ossibuchi e del risotto alla milanese".
Perché il libro, oltre a ospitare la descrizione dei luoghi e delle cucine offerte, propone qualcosa come 642 ricette, tutte perfettamente attendibili e replicabili.
A proposito del ristorante “Tre Marie” di L’Aquila, rievoca la leggendaria “panarda” che poi sarebbe un pantagruelico pasto composto da 35 portate, dal brodo ristretto alla mortadella di Campotosto, dal cuscinetto di scamorze e carciofi fritti alla salsiccia cicolana, alici e capperi.
E, per finire in gloria, le portate numero 33, 34 e 35 sono, rispettivamente, solo per i sopravvissuti però, a base di frutta secca e fresca, dolce “Tre Marie” e “ferratelle e nocci attorrati”.
Si è detto del ristorante più caro ed è quindi giusto dare notizia del meno caro che risulta essere “La Rosetta” di Cagliari dove l’avventore avrebbe speso tra lire 1350 e lire 2000 (vale a dire tra i 13 e i 20 euro di oggi) per un pranzo completo, per assaporare malloreddus alla campidanese, porchetto allo spiedo e trattaliu (animelle di agnello e di capretto) da servire con Cannonanu di Sorso.

Sì, perché alle pietanze Colorni sposa i relativi vini di cui pubblica anche un indice ragionato, oltre a una scheda dedicata alla “Qualità di alcuni vini tipici italiani secondo le annate” (dal 1945 al 1965).
Intorno al vino, l’autore scrive: "La famigerata domanda 'bianco o rosso?' che troppo spesso ci si sente rivolgere quando ci se siede al tavolo di un ristorante, è una vera e propria vergogna nazionale. 'Bianco o rosso?' è il simbolo dello squallore…".
E l’autore non potrà mai sapere che, ancora oggi, ci si sente chiedere quel famigerato 'Bianco o rosso?'…
Scorrendo le 439 pagine del libro ci si ritrova davanti alla splendida pasta e fagioli servita rigorosamente fredda dal ristoratore del “Graspo de Ua” di Venezia, o ai 6 Belloni 6, il padre e cinque figli, del ristorante “Zeffirino” di Genova, per non dire di Gino Angeloni, nativo di Velletri - nei Castelli romani - figlio d’arte: suo padre infatti aveva a Velletri il ristorante “Remo”, specialità romane e “vino de li castelli”. Il ristorante in questione è “Da Gino in Trastevere” che, come tanti altri, esiste ormai solo nella memoria tramandata anche grazie a questo lavoro di Giorgio Colorni.
La lettura è piacevolissima, gli aneddoti si affardellano, alla scoperta di un mondo in gran parte morto e sepolto, ma ancora vivo e vivace grazie alle sue espressioni e ai suoi sapori.
Tra i ristoranti segnalati, alcuni sono inseriti in strutture alberghiere come “Rosetta” di Perugia (è ancora attivo) di cui Colorni scrive così: "Di solito, e chiunque si trovi a viaggiare lo sa bene, gli alberghi importanti, soprattutto nelle città, non vantano una gran cucina. Felicissima eccezione, dunque, quella della 'Rosetta' di Perugia: un albergo di buon livello, dotato di una cucina tra le migliori d’Italia in assoluto".
Tra le ricette le curiosità si sprecano. Le "Arcate" di Napoli proponevano gli “Involtini alla Sofia Loren” da servire con Gragnano, il “3 Risotti 3” di Ganna, in provincia di Varese, serviva le “Quaglie glassate” e “Spiedini di lumache”, per non dire delle “Palombacce alla ghiotta”, rosolate allo spiedo, del già menzionato “Rosetta” di Perugia.
C’è da dire che in quegli anni la cacciagione andava molto di moda. L’albergo-ristorante “Cappello e Cadore” di Belluno offriva nel menù, tra altre leccornie, fagiano in salsa, lepre alla bellunese, piccioni alla boscaiola al modico costo del pranzo di lire 2000, con esagerazione sino a lire 2500. Altri tempi.
E andavano anche di moda contaminazioni tra cucina tradizionale e innovazione come al “Villa Borromeo” di San Casciano Val di Pesa, dove nel menù accanto al cinghiale alla maremmana potevi gustare le bistecche dello Scià, il coscio di capriolo allo champagne e i petti di tacchini tartufati con funghi.

Oltre a quelli già menzionati, oltre mezzo secolo dopo l’indagine conoscitiva di Colorni, sono ancora sulla breccia ristoranti ormai più che storici quali il “Cambio” di Torino, attivo dal 1757, e l’ “Albergo del Sole” di Maleo che è anche stato, ironia della sorte, l’ultimo ristorante in cui cenò Gianni Brera prima della tragica morte avvenuta per incidente automobilistico.
Per altro il “Cambio” è ancora oggi nei posti alti delle classifiche delle moderne guide.
A Recco lavora a pieno ritmo “Manuelina”, mentre il “Gambrinus” di San Polo di Piave (Treviso) è ancora un approdo sicuro per chi vuole confrontarsi con i solidi piatti della cucina veneta.

A Roma “Checchino al mattatoio” in via Monte Testaccio offre ai suoi più che affezionati clienti, ora come allora, coda alla vaccinara, abbacchio arrosto e rigatoni con la pagliata.
Ecco l’incipit di questa incredibile ricetta del 1887 della sora Ferminia: "Occorre dell’intestino digiuno di manzo. Si spella, si taglia a pezzi di circa 20 cm., senza distaccarli completamente l’uno dall’altro. In un tegame pesante, possibilmente di rame, si mette un battuto di lardo e olio, a fuoco forte, e poi si aggiunge la pagliata”. E, a piatto completato, buon appetito…
Mentre tra i c’era una volta si colloca il ristorante-albergo “Roma e Pace” di Ancona, famoso per i suoi stoccafissi e per i Wincisglass, lasagne d’impronta marchigiana, dove, narra la leggenda, nel 1907 si presentò a chiedere lavoro come guardiano notturno un tale Ivano, testé sbarcato da un cargo di grano proveniente da Odessa, nome sotto il quale si celava la più articolata denominazione di Iosif Vissarionovic Dzugasvili. Colui che lo accolse, il portiere dell’albergo Paolo Pallotta, riferì poi che: "Pareva molto gentile, sorrideva sempre, ma mi sembrò troppo timido per fare il portiere d’albergo". E fu così che Giuseppe Stalin non trovò occupazione in Italia…
Insomma il ricco compendio di Giorgio Colorni offre non solo uno spaccato della cucina italiana della fine degli anni ’60 del secolo scorso, ma anche una descrizione più che attendibile dell’Italia di quegli anni, dei suoi gusti alimentari e non solo, della soddisfazione, almeno per alcuni se non per tutti, di aver raggiunto un certo benessere che si manifesta anche con la frequentazione non più impossibile di trattorie e ristoranti anche importanti.
Una piccola riflessione di carattere economico permette di segnalare che nel 1968 un operaio, il cui stipendio mensile si aggirava intorno alle 120.000 lire, avrebbe potuto permettersi in un buon ristorante quasi 50 pasti mensili (spesa media di un pasto 2.500 lire). Oggi tale disponibilità si ridurrebbe a circa 40 pasti per via di uno stipendio medio di 1.500 euro e un costo/pranzo di € 40.
Scrive ancora Brera nella sua “doverosa e quindi onesta” prefazione al volume di Colorni: "Il suo libro non è già un goffo trattato sul modo di deglutire con gusto: è qualcosa di molto più serio e utile al Paese. Il quale sta ridestandosi (ma fu mai sveglio prima?) a un decoro di vita senza dubbio europeo. Fuor dallo slancio incontrollato dei poeti e dei bruti, l’italiano ritrova a tavola la calma serena e sicura del vero filosofo del gusto. Insomma, a lui non basta più il pacchiare e il rimpinzarsi: la sua animalesca angoscia de domani va scemando con il benessere e la cultura: a tavola vuol capire non solo con lo stomaco. Tenendo conto di ciò, Giorgio Colorni ha provveduto a fissare itinerari e ricordi schietti".
E va da sé che quella "tumultuosa calata a valle" non era nient’altro che la Resistenza contro i nazisti e i fascisti a cui sia Gianni Brera che Giorgio Colorni avevano gloriosamente partecipato.
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