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Pierluigi Cappello
"UN PRATO IN PENDIO"

di PAOLO BIROLINI

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Pierluigi Cappello:
"Un prato in pendio "

Rizzoli BUR

Nessuna poesia è altro dalla vita di chi l’ha scritta. In molti poeti della fine del secolo scorso si legge il tentativo di staccare la vita propria dai propri versi, farne un’altra, costruirla sul mito e il segreto iniziatico o sulla decostruzione del linguaggio..

In Pierluigi Cappello la vita, intesa come catena di eventi drammatici, (incidente, immobilità forzata, malattia), diventa motore e artefice di ogni evoluzione, restringe il campo dell’esperienza, umana e visiva, obbliga all’invenzione. Come in alcune storie di poeti che hanno sofferto di menomazioni o hanno vissuto esistenze difficili, la necessità della scrittura diventa emergenza e impasta la lingua con quel dolore pervasivo.

Non a caso la nota introduttiva di Gian Mario Villalta a questa bella antologia dell’opera di Cappello, si apre proprio con la citazione di una domanda che Affinati, nella sua postfazione a Mandate a dire all’imperatore (Crocetti, 2010), si pone in premessa:

La prima domanda che mi feci appena lo vidi fu questa: se non avesse avuto quel terribile incidente, sarebbe ugualmente diventato un poeta? La risposta dentro di me, è stata immediata: si, di sicuro.

Lo penso anch’io. L’incidente però, ha cambiato di sicuro direzione e urgenza di quei versi che di certo già abitavano Cappello fin dalla adolescenza. Ne hanno ridotto gli spazi e le divinità e, per paradosso, lo hanno obbligato ad uscirne.

Esco in giardino stanco, a mezzasera;
lì c’era il verde del verde lì c’era
il cielo del cielo lì c’era il vero
del vero perduto di me nel perdermi
o per farmi archeonauta di me stesso
con il passo che dà seguito al passo

Il mondo sta nel giardino e nelle sue mutazioni, le divinità sono le povere figure umane del paese friulano e del paese familiare: il padre, lo zio, lo stalliere, il muratore, che incontra uno ad uno nel sogno/viaggio dantesco di La strada della sete o nella Spoon River di I vostri nomi.

Cosa e come avrebbe scritto Cappello senza incidente, ospedali, operazioni, malattie? Se avesse percorso il mondo in ogni direzione, incontrato facce, amori, paesaggi? E come lo avremmo letto noi senza quella lente?

C’è un’ansietà d’attesa nella stanza:
il calabrone è un acino di rabbia.
Ha descritto da parete a parete
spigoli d’aria. Ha cabrato e picchiato.
Sfiorato sul tavolo frontespizi
e costole, cime di suppellettili
le rime di me trascritte sui fogli.
Ho spalancato tutte le finestre,
abbandonati i fogli. Fuori il sole
è fiorito sui rami, sorridente
fra me che scrivo e la parola niente.

La voglia frustrata di volare, (non metaforica, Cappello aveva frequentato l’Istituto Aeronautico), più ancora del camminare, ha obbligato il poeta alla frequentazione delle pagine del Novecento. E quelle lingue si riversano una dopo l’altra nella sua e ne segnano l’evoluzione, cabrano e picchiano Pasolini, Ungaretti, Caproni, tutti rinchiusi nel prefabbricato post-terremoto che gli fu assegnato dopo il ’76.

Qui è appena grandinato
considera la porzione di cielo
rotta a nord
dal culmine della villa di fronte
anche noi siamo abitati dal fulmine
noi stessi cielo
se l’intercedere di una metafora
fa di noi più cielo
altro l’andare nostro al nostro andare.

E, prima di tornare ad una misura più “parlata” ed intima, quando sentiva lo sfinimento dello scrivere e l’obbligo a farlo, la bellissima parentesi di Ogni goccia balla il tango, i versi scritti per la nipotina Chiara:

Questa pioggia è da ascoltare,
è il concerto delle gocce:
fatto in battere o in levare
suona note dolci o chiocce.
Fruscian gocce sopra il prato,
tamburellano le foglie
ridon tutte sul selciato
piange il vetro che le accoglie.
Sembra quasi dire il cielo
Sono triste e allora piango,
ma in compenso, in parallelo,
ogni goccia balla il tango,
molte scendon le grondaie
tristi alcune, alcune gaie.

Questa capacità giocosa della rima, dell’invenzione, in queste “poesie su commissione” mi fanno pensare che, si, anche senza l’incidente, Cappello sarebbe stata una voce importante della nostra poesia, ma una voce diversa, dilatata, di spazi reali e volti e amori.

Così non è stato e lo stato di quiete cui aspira verso la fine, con una lingua sempre più sua, non è una pausa da stanchezza accumulata, ma una sosta breve nel percorso del dolore, del tentativo costante di immaginarsi la vita oltre la siepe che gli chiude lo sguardo sul mondo.

Non si tratta di riempire, si tratta
di far parlare il vuoto. L’ortensia
si è piegata al frutto della luce
ma non c’è tensione oltre le siepi di lauro,
nella tenue foschia di mezza mattina. Sarà
il tremolare delle gemme di marzo, sarà
l’aria spartita dal raschio di un autocarro
e il ricomporsi del silenzio che chiude una scia.
Dalla testolina di un passero, la prospettiva
accompagna lo sguardo alle quinte di alberi alti
dove il cielo si rompe in turgore e il bianco
ha il sapore di un inno; si vive
appena sopra la superfice del sogno
e tutto accade a un passo da qui.

Far parlare il vuoto. Questo sta sotto tutta la poesia di Pierluigi Cappello e dentro ognuno di noi che viviamo appena sopra la superficie dei nostri sogni.









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