‘A Casa Museo José Saramago’ a Lanzarote è una casa e basta. Non è neanche veramente un museo. Pilar, la vedova, vi abita ancora quando si trova nell’isola, e il visitatore può incrociarla quando va a farsi un caffè in cucina. Non manca neanche il gatto che sonnecchia in poltrona e offre rilassato la pancia a chi voglia grattargliela. Perciò, se vieni a visitare la casa in cui Saramago, di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita, ha vissuto gli ultimi 18 anni della sua vita in esilio, è solo perché hai amato talmente tanto l’uomo prima ancora dell’autore che vuoi girare fra le sue stanze, così come vuoi respirare fra le righe dei suoi libri, o ti nutri delle parole dei suoi interventi pubblici, soprattutto quando non parlava di letteratura.
Pare che Saramago amasse definire questa casa 'una casa fatta di libri'. Ma al di là dei quindicimila volumi della sua biblioteca, è nel tappeto di lava all’ingresso, nei quadri ispirati ai suoi romanzi, nel disegno di china raffigurante suo nonno analfabeta che abbraccia un albero, nei cristi di varia provenienza, nelle penne sistemate tutte in fila, negli orologi fermi all’ora in cui aveva visto la prima volta Pilar, nella grossa pietra di lava accanto alla sua sedia in giardino, nell’ulivo portoghese da lui piantato, che ritrovi lo spirito di questa casa.
È una ‘finca’ bianca e squadrata, a Tias, nell’entroterra di Puerto Carmen, a Lanzarote. Due targhette al citofono, stesso edificio e patio in comune con i parenti stretti di Pilar, quelli che gli suggerirono il luogo dove stabilirsi quando, nel 1993, Saramago e la moglie decisero di lasciare Lisbona dopo il veto del governo alla partecipazione del suo ‘Vangelo secondo Gesù Cristo’ al Premio Letterario Europeo, perché considerato offensivo per la religione. La casa è una casa e il soggiorno è un soggiorno, con i ricordi di una vita, foto, quadri, statuette. E, appunto, un gatto in poltrona. La cucina è una cucina, diversa da ogni altra solo perché ha ospitato Buñuel, Carlos Fuentes, Ernesto Sábato, Susan Sontag o Bertolucci. Nell’anticamera della biblioteca, i ritratti di Cervantes, Camões, Pessoa, de Andrade, e don Chisciotte, sconfitto in tutte le battaglie, eppure maestro da invocare ogni volta che ci si lancia audacemente in una nuova impresa.
I libri, lui che il primo libro l’aveva posseduto a 19 anni, sono stati catalogati in questa maniera: la letteratura per paese d’origine degli scrittori; le scrittrici a parte, decisione di Pilar, perché le donne non debbano condividere gli scaffali con autori di sesso maschile che non le rispettavano abbastanza; filosofia, storia, arte e tutto il resto raggruppati in ordine tematico. Di autori italiani ci sono libri, quasi nessuno in lingua originale, di Eco, Pavese, Pasolini, Moravia, Magris, Pratolini, Svevo, Bufalino, Buzzati, il 'Pinocchio' di Collodi, un solo Verga ma tanto Camilleri, le poesie di Sebastiano Grasso, Italo Calvino quasi tutto. Delle ‘Proposte per il millennio’ di Calvino, in un’intervista una volta Saramago disse: “Non s’è mai capito bene cosa intendesse quando proponeva che la letteratura dovesse essere leggera. Ho il sospetto che oggi, se fosse vivo, non gli passerebbe neanche per la testa. Guardiamoci intorno: è del tutto evidente che la leggerezza è fuori tempo e fuori luogo.”
Saramago veniva in biblioteca tutte le mattine e si sedeva al tavolo. Scriveva e quasi mai tornava su quello che aveva scritto. Scriveva senza interruzioni né ore morte, perché "il tempo stringe", diceva. Scriveva e Pilar, al piano di sotto, traduceva in spagnolo. Quando José finiva di scrivere, anche la traduzione era praticamente pronta. In questa biblioteca Saramago scrisse da ‘Cecità’ in poi, mentre il suo linguaggio si fondeva sempre più col paesaggio circostante. Dalle finestre si intravede qualche palma, qualche carrubo - il raro verde di Lanzarote che cresce a fatica accanto alle case tutte bianche - e poi la Sierra de los Ajaches e il promontorio di Papagayo, Las Grietas della Montaña Blanca - che sono canyons, fratture sinuose della costa vulcanica modellate dai venti, nascoste e sconosciute al turista - e naturalmente l’oceano, ma soprattutto il Parco di Timafaya, lì dove 300 anni fa il terreno si spaccò e le fiamme e la lava ingoiarono l’isola, che ora è un oceano di lava, chilometri e chilometri quadrati solo di lava, pinnacoli di pietra, cenere e crateri, quasi duecento, in un silenzio totale se si esclude il movimento del vento, una terra estrema, surreale.
Solo l’Islanda può dare la stessa sensazione lunare. Ma l’Islanda sa essere verde, qui è terra nera, al massimo merletti di pietra che proteggono dal vento eroiche, minuscole piantine d’uva, forse i vigneti più strani del mondo. “Non è la mia terra” disse Saramago di Lanzarote, “ma è la terra mia”. La sua scrittura, libro dopo libro, bagnata in quei colori austeri, nero, ruggine, la peluria dei licheni, in quei vuoti metafisici, in quel silenzio, si spalmava sulla pagina andando avanti e indietro senza mai perdersi nel rumore mentre il pensiero vi vibrava dentro secco e diritto come una freccia.
Da qui Saramago si mosse nel 1998 per prendere il premio Nobel per la letteratura, a lui assegnato per “averci aiutato ad afferrare una realtà elusiva, con parabole sostenute da immaginazione, compassione e ironia”; e da lui dedicato “all’uomo più saggio conosciuto nella vita, che non sapeva né leggere né scrivere”: cioè a suo nonno, contadino nelle terre dell’Alentejo, alla cui storia di vinti aveva dedicato un romanzo. Sempre nel discorso del Nobel disse: “Lettera per lettera, parola per parola, pagina per pagina, libro per libro, i personaggi che ho creato si sono successivamente insediati nell’uomo che ero. Senza di loro ora non sarei l’uomo che sono.”
Eppure per lui la letteratura poteva pochissimo per cambiare il mondo. Parafrasando il detto aiutati che dio ti aiuta avrebbe al massimo potuto dire “aiutati che la letteratura ti aiuta”. “Ma non sono in molti a voler essere aiutati”, aggiungeva amaro. Pensò che come epitaffio per la sua lapide avrebbe voluto una sola parola: “Indignato”. Indignato per essere morto, certo. Ma soprattutto “indignato per essere passato nella vita e non essere riuscito a cambiarla”. Ma il vento di Lanzarote lo rendeva felice. “Quella furiosa agitazione dell’aria” che gliela consegnava sempre nuova. “Possono portarmi via quello che vogliono, ma nessuno potrà portarmi via l’aria di Lanzarote”, disse una volta. E anche: “Nel cratere rotto di El cuervo molte cose diventano insignificanti. Un vulcano spento e silenzioso è una lezione di filosofia.”