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TORTE E VESUVI
OSHI E KVARA
VEDI NAPOLI
È QUI LA FESTA


di
TINA PANE



Alla fine ha avuto ragione lui, il marito.

Che pur avendo rinunciato da tempo a convertirmi alla fede calcistica per la squadra del Napoli, mi continuava a ripetere che prima o poi lo scudetto sarebbe arrivato e lui si sarebbe fatto delle grasse risate a vedermi impegnata a raccontare non le gesta sportive per carità, chè niente ne capisco, ma tutto il contorno di clima, folklore ed eventi speciali.



Ora, stiamo bene attenti, lo scudetto NON è ancora arrivato, e lo stesso De Laurentis continua a mettere le mani avanti e a fare gli scongiuri. Ma pare che sia rimasto solo, perché in tutta - e dico tutta - la città c’è sventolio e vendita di bandiere che già portano il terzo scudetto, le bancarelle con le magliette pezzotte si guadagnano posto in ogni mercatino rionale e nelle zone turistiche, i commenti post partita hanno tracimato i bar, i posti del lavoro e la fascia del lunedì mattina e non v’è strada, negozio, crocicchio o parco dove non si parli del Napoli e delle sue gesta.


Altro che epica, altro che uovo di Virgilio! La città s’è desta, e se fino a un paio di settimane fa tutti i tifosi - da Maurizio De Giovanni in giù - mantenevano il profilo basso e non pronunciavano la parola scudetto, i più 15 punti sulla seconda in classifica e un’infilata di vittorie (che perfino io ho capito che era una cosa eccezionale) hanno fatto rompere gli argini.



E ora la situazione sta veramente sfuggendo di mano. È successo quando non so più quale pasticceria ha realizzato una torta che riproduceva colori e capigliatura dell’idolo nigeriano Osimhen.




Dopo neanche due giorni sono arrivati in rapida successione una pizza, un uovo di Pasqua e un Vesuvio… non si è salvato neanche il Cristo Velato.






Che dire? C’è un clima di attesa, di entusiasmo, di felicità che ha voglia di esplodere.

Anche un’agnostica come me ha dovuto accettarlo. E mio malgrado chiedere al marito di accompagnarmi al cosiddetto Memoriale Maradona che, pur essendo sorto da qualche anno ai Quartieri Spagnoli, non ha mai visto la presenza di tanta gente come in questo periodo in cui “la capolista se ne va”.


Domenica scorsa il soprannominato Largo Diego Armando Maradona (parte finale di via Emanuele De Deo) era meta di un pellegrinaggio da far impallidire la Madonna di Pompei.


Frotte di persone salivano da via Toledo per fermarsi a fare foto e selfie sotto il grande murale, più volte restaurato, del Pibe de oro, per poi sostare davanti all’altare con le foto, il pallone, il busto del campione che sovrastava il tappeto di sciarpe di altri club lasciate in omaggio come fossero ex voto.



Tra spintoni per guadagnarsi un posto in prima fila, aste per i selfie, richiami e voci con gli accenti più disparati, per respirare non restava a un certo punto che dirigersi tra gli stand di magliette, felpe e cappellini, sotto le solite bandiere sventolanti e in vendita, oppure scegliere tra uno spritz, un tag e una “limonata a cosce aperte”.



Non paga di quest’esperienza (e del sarcasmo del marito), gli ho chiesto di accompagnarmi a vedere le sagome dei calciatori che a cura degli abitanti della zona erano state realizzate e posizionate sui gradini di vico Colonne a Cariati, sempre nei Quartieri Spagnoli.



La foto aveva fatto il pieno sui social, ma dopo qualche giorno di esposizione mediatica e ventosa le sagome sono state spostate in un vicinissimo slargo che pure attira fedeli, curiosi e turisti che si mescolano tra i calciatori in un afflato certamente aiutato dalla musica a palla e dagli aperitivi a buon prezzo.



Il calcio è una religione e Maradona il suo profeta, mi spiega da decenni il marito, e io che faccio da ancora più decenni la parte dell’indifferente per salvare la pace familiare, sopportando weekend e anche vacanze condizionati dalle date del campionato, ho capito che al pallon non si comanda.



Per cui resto come lui e come tutta la città in attesa del 4 giugno. Astenendomi da commenti malevoli e da facili critiche. Verrà lo scudetto - ma sì!- e mi troverà pronta non dico a festeggiarlo, ma almeno a commentarlo.



L’altra volta, nel 1987 (che il marito stava in mente a Dio), andai per strada con amici a mescolarmi al putiferio dei festeggiamenti, per curiosità e per dire “Io c’ero”. Ne ricavai un bagno di folla e di sorprese, e anche qualche mano morta. Ma allora avevo poco più di 20 anni, oggi non corro questo rischio.



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