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(Cusco, la cittadella di Machu Picchu - foto di Gihan Tubbeh/PROMPERÚ)

MEGALITI
E PACHA MAMA
MAGÌE
DEL CAMINO INCA

di DONATELLA CHIAPPINI

 

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Il sole non è ancora alto, ma alle 7 del mattino brucia con la potente carica dei 3700 metri d’altura come un gigantesco generatore che mette lentamente in moto la testa e il cuore. La polvere sulle sneakers, la fatica dei passi, lo slalom per evitare i buchi nel terreno, il sonno che ti avvolge da giorni e giorni come una coperta invernale: tutto si scioglie una volta arrivati al piatto Camino Inca, parte di una rete di 60mila chilometri (giunge fino al Cile e in parte all’Argentina) che risale più o meno al 1300 d. C. Siamo a un paio di chilometri da Cusco, antica capitale dell’impero che i conquistadores hanno depredato e sopraffatto, oggi città cult del Perù (www.gob.pe/promperu) che mozza il fiato - nel senso letterale del termine - a chi osa visitarla senza il progressivo adattamento respiratorio. Tre ore di apnea all’arrivo al Mercado de San Pedro, il saturimetro che segna a stento 87, la vista appannata, il ristoro dentro il pullmino, sdraiata a gambe in su per riacquistare le forze. Ti sembra proprio di non farcela. Ma l’ordine di Mario Halaya che ci guida con esperienza (https://chaskiventura-travel-peru.com) è “sniffare” un certo olio di fiori ed espirare. Inspirare ed espirare. Con un po’ di pazienza i polmoni si adeguano alla rarefazione e si torna in piedi. Resta il mal di testa (che passerà) e questa divagazione che va presa come una formula-consiglio. Il diktat è avvicinarsi in quota Inca pian piano, oppure rischiare di rimanere inermi per mancanza di ossigeno.


(Il Camino Inca verso Machu Picchu - foto Renzo Tasso)


Il Camino, comunque, val bene la sveglia e gli sbadigli. I cavalli al pascolo, ai margini della strada delimitata da paletti, sono tanti, dal manto lucido e di diverse razze, al passaggio umano alzano appena il muso per poi riabbassarlo. Mille versi di uccelli ritmano la breve marcia; un’indicazione segnala il Tempio delle Scimmie, un antro che non regala più emozioni. Si continua a camminare in silenzio, la natura è in concerto. L’appuntamento con Lucas è in uno spiazzo ampio, erboso, tuttavia protetto da una corona di alberi ad alto fusto. Quasi nessun esemplare botanico è peruano, l’eucalipto (di origine australiana) ha avuto la meglio su chi lo circonda, resistono querce e pini e moltissime specie non identificate. L’odore di erba bagnata è fortissimo, il dubbio però è che sia solo la brina mattutina perché qui non piove da giorni, con grave preoccupazione dei campesinos.


(foto Donatella Chiappini)


Ci avviciniamo piano alla macchia di colore sull’erba che s’intravede da lontano. Lucas, curandero di seconda generazione nonché professore in un liceo per decenni, ha appreso da sua madre i segreti e la forza del rito e oggi è pronto a condividerlo con noi giornalisti stranieri. L’occasione è la Pacha Mama. In lingua quechua Madre Terra, la divinità venerata dagli Inca e da tutti i popoli dell’altopiano andino di cui si ha memoria. Non troppo dissimile dalla Gea greco-romana. È a lei che si chiede benedizione e sostegno e fortuna ed energia e fertilità e amore e opulenza e pioggia in abbondanza per i raccolti. Ed è ancora alla Pacha Mama che si deve il pane, la salute, l’aria di montagna, la vita stessa. Non ha la minima importanza che crediate o no alla sua esistenza, che siate cristiani, agnostici, musulmani o buddisti, l’importante è rispettare la cultura ancestrale di un popolo che nella sua identità ha le architetture Incas, l’oro, l’avocado, il pisco, la cordigliera delle Ande, i conquistadores di Pizarro, la Pacha Mama e un’infinità di altre creazioni, religiose e non solo.


(foto Donatella Chiappini)


Ma torniamo a guardare Lucas. Incontrarlo non è stato facile. Noi abbiamo voluto farlo: per capire, osservare e condividere un pezzo di anima andina. A contattarlo ci ha pensato Mario, che lo conosce da sempre. È qui per farci un favore. Si è fatto trovare con il figlio Josè che lui, 84 anni, chiama sempre e soltanto hijo e che lo assiste nei gesti lenti e ripetuti. Entrambi indossano un poncho rosso a righe (di quelli tessuti a mano) e i tipici berretti di lana andina. A terra, sull’erba c’è un tappetino colorato e sopra un panno variopinto e poi un altro cotone bianco e sopra ancora fiori, mucchietti di offerte disposte in microscopici piattini: piccoli regali per ringraziare Madre Terra.


(foto Donatella Chiappini)


Lucas ci accoglie con un sorriso, noi ci sediamo davanti alla tavola imbandita e lui comincia a raccontare. Se non facesse freddo e il sole non accecasse la vista e la terra non emergesse umida sotto le gambe, tanto da costringerti più volte a cambiare assetto di seduta, sembrerebbe di essere in un film o in qualche libro di Carlos Castaneda, scrittore peruviano assai amato negli anni Settanta per la sua conoscenza spirituale e bistrattato decenni dopo per i suoi testi al limite del para-spiritico e del paradosso. Comunque noi siamo qui ai margini della città di Cusco mentre il curandero, che non ha particolari poteri (come lui stesso confessa) ma è guidato dalla mano di sua madre (“Analfabeta; eppure, così potente che vedeva il male del corpo e sapeva piegarlo”), ci distribuisce tre foglie messe insieme a ventaglio dal grasso di lama. Ognuno di noi ci soffia sopra per ottenere benefici personali, per combattere le malattie e per la prosperità dell’umanità.


(foto Donatella Chiappini)


Parla della guerra in Ucraina Lucas, che da qui sembra lontana anni luce, e spiega guardando mi hijo che il rito della Pacha Mama aiuta sempre l’equilibrio del mondo. “Perché tutti camminiamo su questa terra”. E pure il Covid è morbo di tutti. Non c’è nulla di sbagliato né di incomprensibile in ciò che narra. Si va avanti con le offerte alla Madre. Da minuscoli piattini vengono rovesciate al centro del tappetino colorato: fagioli, semi di quinoa, lenticchie, grano, anice, mais, semi di lino, zucchero, semi di coca, caramelline colorate, riso, ceci, incenso e pezzettini di palo santo. Sulla tovaglietta sono sparse varie erbe di montagna e monili che rappresentano la casa, la coppia, il sole. I doni convergono al centro della stuoia e si crea una specie di montagnetta che viene aspersa con profumi intensi, estratti dai fiori che invadono l’aria intorno. Parole brevi, raccomandazioni alla Madre e sorrisi agli astanti chiudono il rito. Poi il “materiale” viene impacchettato in un involucro che sarà bruciato e sepolto (ma non in nostra presenza): “Perché la Madre Terra ci sia amica e sia felice del nostro rispetto”.


(foto Donatella Chiappini)


Il rito non lascia scossoni e neppure brividi addosso. È stato un incontro speciale questo, ci diciamo separandoci. Un’esperienza importante, sebbene per la cultura cattolica la Pacha Mamma sia un “inganno tanto grave in quanto pretende di imporre una teologia indigena latino-americana unificata che vanifica la ricchezza della diversità degli stessi popoli indigeni originari di tutta l’America Latina”. Parole della Civiltà cattolica.


(foto Donatella Chiappini)


Salutato Lucas si apre un nuovo capitolo. Andiamo in fretta verso il Camino. Sacsayhuamán è lì che aspetta, maestosa, in pieno sole, a 3700 metri d’altitudine, appena due chilometri a nord di Cusco che si sta risvegliando. Il sito archeologico domina, anzi dominava, la piana dalla collina di Carmenca. Costruito tra il 1438 e il 1500, con giganteschi blocchi di pietra squadrati, doveva avere funzioni di tempio, ma ipoteticamente anche di fortezza. Inglobava torri e porte (tutt’oggi intuibili) e si presentava con tre livelli di altezza nonché di sacralità.


(Calle Hatun-Rumiyoc, città di Cusco - foto di Enrique Nordt / PROMPERÚ)


Il suo nome in lingua quechua si traduce “falco sazio – falco soddisfatto” e come un falco vegliava su Cusco (di cui costituiva urbanisticamente la testa di un puma sdraiato, animale sacro per le popolazioni andine) prima che gli spagnoli ne facessero strage. Un massacro di uomini e porfido - sottratto all’area in considerevole quantità a partire dalla guerra del 1536, portato via per costruire la nuova (e a dire la verità bellissima) Cusco del vicereame. Qui, pare, si combatté un capitolo rilevante della grande guerra di Pizarro. Non ci sono cronache a raccontare le morti e gli assalti. Gli Incas non conoscevano la scrittura, hanno tramandato simboli e disegni.


(Fortezza di Sacsayhuamán - foto di César Vallejos / PROMPERÚ)


Certo è che il grandioso complesso con tre ordini di cinte murarie ancora individuabili e lunghe trecento metri, realizzate con parallelepipedi tagliati e connessi tra loro con precisione chirurgica, fu sventrato a poco a poco. La muraglia principale era formata da pietre alte cinque metri e larghe due e mezzo. Estratte da una cava poco lontana, nei settanta anni serviti per dare vita a Sacsayhuamán furono presumibilmente trasportate facendo leva sui tronchi d’albero più solidi, poi sistemati al suolo in sequenza per permettere il rotolamento. E, si ipotizza, spaccate e levigate allo scopo sul piazzale del Tempio del Sole. Nell’edificazione della cittadella - che lascia sgomenti per la sua cruda originalità - pare siano stati impegnati più di 20mila uomini. Ed è verosimile, visto che ogni blocco di porfido arriva a pesare anche 120 tonnellate. Ed eccola ora Sacsayhuamán: una distesa di monoliti grigi che, per ridere, ci ripetiamo che neppure l’Hercules di Disney avrebbe potuto sollevare.


(Veduta delle Salineras de Maras - foto di Renzo Giraldo / PROMPERÙ)


Alzare gli occhi al cielo e fare due conti è inevitabile. Sì, dove si trovano le pietre disposte in modo circolare poteva esservi il Tempio del Sole. È sicuro, comunque, che le torri fossero tre e in una di queste risiedeva il signore Inca”, spiega la guida. Ma in fondo dove fossero il Signore e i suoi sacerdoti non ha ormai molta importanza, in questo gigantesco piazzale che sembra un’arena ciò che impressiona gli occhi e fa girare la testa è la grandezza di una civiltà che ha lasciato le sue migliori tracce nella pietra. Nessun testo. E siamo nel 1500. Qualcuno ripete che noi avevamo già il Rinascimento, come se un segno, un simbolo, un’opera, una vicenda valesse più di un’altra. Sì, Noi in Europa avevamo il Rinascimento, ma sulle Ande l’aria che si respira ha un’altra consistenza.


(L'area archeologica di Moray - foto di Miguel Mejía / PROMPERÚ)


Quel cerchio in ogni caso ricorda la prima scena del mitico film di Stanley Kubrick “2001 Odissea nello spazio”, quando gorilla e scimpanzé si radunano accanto allo strano monolite “piovuto” da chissà dove e che segnala la presenza di un Altro superiore. Nella pellicola del 1968 il monolite è probabilmente stato creato da una razza aliena che è passata attraverso anni di evoluzione. A Sacsayhuamán, il creatore (l’Altro superiore: Dio e uomo e Imperatore) dei megaliti di porfido si chiamava Pachacútec. Il vigoroso fondatore dell’impero che ha avuto come ultimo Signore Inca Huayna Capac, condottiero che realizzò imprese titaniche sulle Ande. E che – secondo alcuni storici europei - pare (e qui le date si ingarbugliano) sia morto due anni prima dell’arrivo dei conquistadores, mentre – secondo altri – fu sopraffatto nel 1536 dagli spagnoli guidati dal fratello di Francisco Pizarro (Juan), in età avanzata.


(Fortezza di Sacsayhuamán - foto di César Vallejos / PROMPERÚ)


La seconda ipotesi è la più accreditata. In questa realtà dove i miti incrociano la storia e le teorie si confondono, va detto che c’è perfino una leggenda che crede Sacsayhuamán opera architettonica “degli auki, antenati semidivini che facevano muovere le rocce frustandole come si riunisce il bestiame”. Pensieri a perdere.

Meglio tornare indietro fino al Qorikancha, ovvero “il giardino dorato, il recinto dorato”: il grande tempio, insomma, che era il cuore di Cusco e le cui rovine si trovano oggi proprio al centro della città che l’Unesco ha dichiarato nel 1983 Patrimonio dell’Umanità. Piccoli lama da fotografare a pagamento, negozi di caramelle, una cattedrale sorprendente. Dove ora c’è il traffico dei giorni feriali, c’era il Tempio del Sole più grande del grande impero Inca. Tanto brillante da essere visto per chilometri (così narra la credenza popolare) perché ricoperto da centinaia di lingotti d’oro. Custodiva forzieri e pannocchie d’argento, i corpi mummificati (anche se la tecnica di mummificazione non era quella usata dagli egizi) di diversi sovrani Incas e misteri rimasti tra le mani di Pizarro e i suoi. L’incanto dei massi resta a cingere la chiesa dei domenicani. Così come il cartello che vieta di sedervisi! C’è talmente tanta monumentalità intorno che ogni pietra ha una sua storia. Ogni pietra ha “superato” i terremoti che hanno centrato oppure sfiorato Cusco ben 77 volte soltanto a partire dal 1900 fino al 25 novembre 2022, quando si è registrata un’oscillazione di magnitudo 4.


(L'area archeologica di Moray - foto di Miguel Mejía / PROMPERÚ)


La scossa più disastrosa ha colpito “l’ombelico del mondo” (così è stata ribattezzata) nel 1950. Era il 21 maggio, morirono più di 1500 persone e i mega-massi Incas rotolarono giù insieme alle case spagnole, a quelle del Novecento e alle più moderne. La città era in uno stato disastroso, per anni il governo peruviano andò avanti con i restauri (furono messe anche delle tasse sul tabacco per la ricostruzione) e qualcuno di quei blocchi levigati non ha più trovato la giusta collocazione. Un dettaglio insignificante per una città che la Costituzione del Perù (1993) ha designato come capitale storica del Paese, estrema testimone di una straordinaria civiltà.






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