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UOVA
ALLA MONACHINA
SAPORE
D'INFANZIA

di ASSUNTA SARLO




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- Mamma, ti ricordi la ricetta delle uova alla monachina?


- Certo, che domande… E allora, fai rassodare le uova, poi le sbucci, mi raccomando senza rompere, con delicatezza, senza fare in fretta al tuo solito… La gatta presciarola fa i gattarelli orbi… Poi togli il rosso e lo metti da parte…. Sai chi era veramente brava? La tua tata, tata G… E aveva un tocco delicato in cucina, io le avevo insegnato e poi faceva tutto da sola, lei e C. che era appena arrivata dal paese… te la ricordi, era a lutto poverina e aveva una corona di trecce nere lunghe lunghe…


E in un attimo io mi ritrovo non più qui, accanto alla mia grande mamma e grande cuoca che perde pezzi di memoria e poi li rimescola insieme e finisce che nelle uova alla monachina ci mette il brandy destinato invece ad altro suo buonissimo cavallo di battaglia che chiamava pollo alla cinese perché vagamente orientale e accompagnato dal riso pilaf, ricetta che stupiva perché non proprio comune, allora, su una tavola calabrese. Mi ritrovo nella cucina di casa vecchia, la grande casa in cui con sorelle e cugine siamo cresciute, una casa che attirava come il miele altri bambini perché c’era un grande cortile tutto per noi e, meraviglia, una stanza dei giochi per allestire mercatini e teatrini. E in quella cucina, siamo negli anni ’60, è mezzogiorno e sembra un campo di battaglia: mamma sovrintende, tata G. è ai fornelli, nuvole di farina, qui la ricotta, là la mozzarella che deve scolare e bisogna subito passare le patate appena lessate, altrimenti freddano e non va bene. Prendi il prezzemolo, qui ci va un pizzico di noce moscata, la ricotta dell’altra volta forse era migliore e bisogna dirlo alla bottega, ma basterà questa provoletta, altrimenti c’è da fare una scappata a prenderne dell’altra.


Noi bambine ronziamo intorno, vanamente scacciate: oggi è il giorno X, il giorno del gran fritto e pregustiamo la festa grande, che comincerà quando papà arriverà a casa dall’ufficio.


Fritto, hai detto? Eh sì, cari miei cinque lettori e lettrici, la gran gioia del fritto. Caldo e dorato, croccante e morbido, opulento. Casa, infanzia, allegria: di doman non v’è certezza e negli anni ’60 chi ci pensa al colesterolo e ai trigliceridi? La memoria collettiva è la penuria patita in tempo di guerra e le abitudini salutiste vengono rigorosamente riservate a chi, piccolo o adulto, si ammala.


Chiediamo rassicurazioni a mamma e alle tate: ma fate tutto tutto, vero? Mamma impaziente e tate pazienti rassicurano, certo che sì, o si fa o non si fa. (La stessa cosa si dirà molti anni dopo e si continua a dire per contrastare la tendenza a grigliare invece che friggere le melanzane per la parmigiana).


E allora gran fritto sia. E a casa mia il gran fritto comprende(va) certe meravigliose crocché di patate grandi abbastanza da contenere un ripieno filante (gran maestra tata C.), panzerottini alla ricotta e provoletta - no niente pomodoro, il gran fritto si mantiene in una palette di colori che va dal bianco al dorato - cotolette di mozzarella (attenzione, non mozzarella in carrozza, siamo sullo stesso pianeta ma con la fondamentale differenza che nelle cotolette non c’è il pane ma solo, e qui ti voglio a frigger bene, fiordilatte ben scolato in doppia panatura) e una montagna di patate fritte pazientemente preparate per noi bambine che avremmo giudicato un personale affronto non vederle, tante e calde, accanto alle cotolettine. E poi, loro: loro maestà, le uova alla monachina, accolte dai nostri evviva.


E così, di bontà in bontà con le uova alla monachina a costituire il vertice del piacere gustativo, si consumava a casa mia il rito del gran fritto: come facesse poi papà a tornare a lavorare il pomeriggio è una domanda inevasa.


Vari decenni dopo, una magnifica serata d’estate in Sicilia, andiamo con amici a cena in un agriturismo di campagna, nei pressi di Capo d’Orlando. È già tutto bello - siamo allegri e c’è la luna che illumina i fichi d’India e friniscono un sacco di grilli - diventerà tutto bellissimo quando a tavola, introdotte dalla signora che ci racconta essere una ricetta di famiglia (la sua poi discendente nientemeno che da Tomasi di Lampedusa), arriveranno, meravigliosamente calde e dorate, le uova alla monachina, pronte a stupire chi non le aveva mai provate e a stuzzicare la mia nostalgia d’infanzia.


Stupiscono le uova alla monachina: già friggere un uovo appare bizzarro, ma poi, una volta addentate, oltrepassata con soddisfazione la sempre consolante sensazione del fritto svelano quel cuore morbido e lievemente speziato a base di béchamel che fa dire alle tue papille, ehi ma chi è quel genio che ha pensato questa ricetta? La letteratura, per chi non si accontentasse di mangiarle, è concorde: è una ricetta dei monzù borbonici, al lavoro nelle case aristocratiche tra Napoli e la Sicilia e inventori di una cucina che ora si chiamerebbe fusion e che mescola ascendenze francesi e materie prime e tradizioni locali.


- Mamma ti ricordi la ricetta delle uova alla monachina?


A dire la verità non se la ricorda proprio bene, ma le uova alla monachina, in questo pomeriggio di primavera 2022, sono state lo spunto per farla tornare alla sua sapienza di cuoca che ha alimentato generazioni e amici (ora nella famiglia allargata lo scettro è passato alla mia sorella maggiore) e costruito una memoria e una pratica del cibo di casa condiviso nelle sere d’estate quando riusciamo, vicini e lontani, a ritrovarci (quasi) tutti.


Vedi lì, sulla mensola c’è il Talismano della felicità e dentro le ricette. Prendilo, prendilo…


No mamma, deve restare qui. Il libro azzurro, un po’ sbrindellato e macchiato, le paginette a quadretti con la tua grafia così particolare, il ricordo del pollo alla cinese, del tacchino ripieno con le castagne dei nostri Natali, della genovese e delle uova alla monachina. Custodiscili ancora tu, che mi fai contenta.


 

(foto da Vesuvio live)

Le uova alla monachina

4 uova (8 o 12, libera scelta)

Bechamel (quanto basta, bella soda e con abbondante parmigiano e noce moscata)

farina, pangrattato, olio per friggere

Rassodate le uova, dividetele a metà, separate i rossi che metterete in una ciotola per mescolarli bene con la béchamel che avete precedentemente preparato e che deve avere una buona consistenza. Deve venire fuori un composto sodo, liscio e senza grumi con il quale dovete ricreare dalle metà un uovo intero. Lasciateli in frigo (qualcuno suggerisce il freezer, mah) a ben rassodare e poi passate alla doppia panatura, ovvero farina, uovo sbattuto e poi pangrattato.

Questa è la parte più difficile e bisogna, come ben sa chi frigge, essere impeccabili altrimenti il risultato riserverà una delusione cocente. Poi si frigge: non sarei troppo prescrittiva sull’olio, fate un po’ come vi pare. Quando le vedrete belle dorate, chiamate tutti a tavola. E se non vengono subito, incazzatevi: non si trattano così le uova alla monachina.

(Se questa ricetta vi sembra approssimativa, non è colpa mia: sono cresciuta alla scuola di mia madre, la scuola che a domanda sulle dosi risponde invariabilmente ‘Vedi tu, ti regoli, vai a occhio…’).


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