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14 Novembre, 2021

RANDY NEWMAN, JAZZ E TOY STORY

di Antonio Silva

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Di Randy Newman sono un fan fin dalla prima ora. Anzi sono quello che si dice un completista: che sarebbe il collezionista un po’ maniaco che cerca di avere tutto, ma proprio tutto, del suo idolo. Secondo me, la più grande prova d’amore verso un artista è che tu non solo hai tutti i dischi, ma vai a ricomprarti su CD anche quelli che ci avevi già in vinile. Posso dirvi che, per Randy Newman, questo io l’ho fatto. E anche per Tom Waits.


Appena entrate in casa mia, sulla parete del corridoio di ingresso vedete una mega foto che ritrae me, Randy Newman, il mio amico Roberto Coggiola e sua moglie Graziella teneramente abbracciati. Alla fine degli anni Ottanta, quando il vecchio Randy venne al Tenco, si innamorò di noi (ogni tanto capita, con qualche grande) e noi di lui.


Appena arrivato, lo portammo all’Ariston. Rimase di sale quando vide i duemila posti e noi gli dicemmo che c’era il tutto esaurito. Per lui. Non ci credeva, perché “in America io faccio al massimo trecento persone”. Suo figlio grande lo prendeva per il culo: “Guarda che è uno scherzo, questi ti hanno confuso con Paul Newman”.



Siamo quasi coetanei, ma lui è nato a Los Angeles nel 1943 e io a Novate Milanese nel 1946. E’ figlio d’arte, perché suo nonno e suo zio erano celebri compositori. Mentre mio nonno gestiva un’osteria alla Bovisa. Soprattutto, lui nel 1968, e cioè a venticinque anni, ha inciso il primo disco, che si chiamava Randy Newman. Mentre io ho fatto la prima occupazione, che si chiamava Università Cattolica.


In quegli anni lì lui è stato quello che ci ha reso sopportabile la faccia dell’America, cantandone con ironia, e a volte con amarezza, pregi e difetti: Cowboy (1968), Political Science (1972), Short People (1977). Prima che arrivasse Veltroni. Molto prima.


Ma che poi, e durante, ha anche cantato l’amore con una tenerezza e una poesia che non sembra neanche un americano: Love Is Blind (1968), Falling In Love (1988), I Miss You (1999).



Nel 1998, cioè a trent’anni dal primo disco, la Rhino Records pubblicò un cofanetto di 4 CD con il bestof di Randy, nella serie “Famous composers and their works”. Che, come sanno gli addetti ai lavori, significa la definitiva consacrazione tra i più grandi in assoluto.


Potrei forse dirvi, ma se venite al Tenco lo sapete già, che è anche un pregevolissimo compositore di colonne sonore di film famosi: Toy Story è solo uno di una lunga serie. Un altro aveva a che fare con la vita degli insetti, che in inglese si dice bug’s life.


Alcuni fra i più grandi artisti hanno inciso le sue canzoni. Certamente conoscete “You can leave your hat on”, quella dello spogliarello nel film “9 settimane e mezzo”, nella versione di Joe Cocker. Ma vi dico anche di ascoltare, se già non l’avete fatto, “Guilty” nella versione che ne hanno dato i Blues Brothers nel disco “Made in America”. E poi ditemi voi se ho ragione a dirvi che non è mica paglia.


Uno dei dischi che ho amato di più, “Bad Love”, è un autentico e indiscutibile capolavoro. E’ la summa di una vita, l’opus maxumum di un genio.


Lì dentro c’è tutto: l’amoreodio per il suo paese (My Country), la sua filosofia (I Want Everyone To Like Me), l’amore (Every Time It Rains) e la politica (The Great Nations Of Europe; The World Isn’t Fair). Dove riesce addirittura a dire delle cosa di sinistra. Prima di D’Alema. Molto prima. E altro ancora.


Potrei dirvi, infine, che la sua musica è fatta di jazz, di blues, di rock, di influssi europei, di musica colta, extracolta e supercolta. E altro ancora.


Ma io che cazzo ne so di Randy Newman. Mica sono un critico musicale.



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