27 AGOSTO 2025

IL CATALOGO
POSTALE
E IL CAMION
CHE SI RUPPE

di GIUSEPPE CASCIARO
(foto dal gruppo Fb 'Coriglianesi nel mondo')


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Corigliano Calabro*

Il postino si fermò davanti alla fontanella, bevve un poco d’acqua fresca, deglutì, si asciugò la bocca con la manica della giacca di servizio e convocò in mezzo a Cirria i destinatari delle missive, dei pacchetti e delle cartoline - postali e illustrate - che riempivano la sua capiente, traboccante e usurata bolgetta. “Carmenia, scendi – urlò Gigino – c’è una raccomandata per il tuo sposo”; e subito dopo chiamò al centro della strada Assunta per una lettera che giungeva dalla Germania e Guirino per una busta con il timbro dell’Inps. Infine si rivolse a Ninetta, mia madre, che era appostata davanti al negozio, e le disse che era arrivato il catalogo che stava aspettando. Mamma strofinò i palmi delle mani sul sinale, ritirò la pesante pubblicazione, salutò l’impiegato postale e tornò verso la bottega dove un paio di clienti aspettavano di essere serviti. Il catalogo della Vestro (o quello di Postal Market) per noi che abitavamo a Cirria - ma anche per la moltitudine di persone che affollava le campagne e i paesi dell’Italia degli anni Sessanta – rappresentava una sorta di centro commerciale con decine di negozi da sfogliare: centinaia di prodotti per ogni occorrenza, dall’abbigliamento intimo alla ferramenta fino ai giocattoli. Bastava scegliere le cose che volevi, annotarle su un foglio prestampato che di solito si trovava nelle ultime pagine della pubblicazione, badando a scrivere con precisione i codici di riferimento e il più era fatto: l’ordine andava inviato per posta alla Vestro e dopo un po’ di tempo lo stesso postino che aveva portato il catalogo avrebbe consegnato (anche se a volte passavano mesi) anche il pacco con la merce ordinata. Il pagamento poteva essere fatto tramite vaglia ma si poteva scegliere l’opzione contrassegno, ovvero dare i soldi direttamente al postino al momento del ritiro del pacco.



Mamma mi sembrò felice con quella specie di giornale in mano; cercava il mio sguardo perché voleva che diventassi complice di un gesto che stava per fare e che poteva prestarsi a una interpretazione dubbia. Per un istante si portò il catalogo al petto e lo strinse in un abbraccio, come se fosse un figlio. O un amante. La guardai silenzioso. Poi sorrise, ma in maniera rumorosa, soddisfatta per avermi sorpreso. Sorrisi anch’io, ma senza convinzione perché probabilmente non apprezzai quel gesto. Dopo pranzo mamma si affrettò a sparecchiare, lavò i piatti, sistemò velocemente ma per bene la cucina perché era impaziente di sfogliare tutto quel bendidio. Seduta al tavolo dove pochi minuti prima avevamo finito di mangiare, cominciò a lasciare orecchie sulle pagine del catalogo per segnare le cose importanti, da mettere in un primordiale carrello della spesa. Fece segni nella sezione delle mutande, su quella delle maglie di lana per papà; notò, marcandoli, strofinacci, spugne, pentole e tegami, fece persino un’orecchia (anche se non tanto decisa) sulla pagina dove erano mostrati i cacciavite perché aveva sentito dire a papà che i suoi non andavano più bene. E poi si concentrò sui giocattoli, lasciandomi la facoltà di sceglierne uno, quello che volevo, per aggiungerlo all’ordine che era in via di definizione. Scelsi un semplice camion di plastica, senza funzioni speciali né batterie per l’alimentazione. Si muoveva se qualcuno era disposto a spingerlo, e basta. Però aveva un ampio cassone, grande, nella mia immaginazione, quasi come quello del Leoncino che scendeva a Cirria e scaricava cumuli di sabbia utile per fare il cemento che rendeva forti i muri delle nostre case.



Quella sera, verso le cinque e mezza, l’ordine fu spedito alla Vestro. Andai personalmente dal tabaccaio in piazza del Popolo, comprai un francobollo, lo leccai per sciogliere la colla e lo appiccicai con forza sull’angolo destro della busta, sopra l’indirizzo prestampato del destinatario. La buca delle lettere era dall’altra parte dell’Acquanova; attraversai la piazza e dopo essermi assicurato che la busta fosse chiusa (e il francobollo ben saldo) la infilai nella buca spostando la feritoia che quel giorno, forse per un problema di ruggine, di umidità o di usura, opponeva più resistenza del solito. … Non c’erano tanti giocattoli con cui giocare quando ero piccolo. Ne ricordo alcuni. Il primo fu una macchinina a pedali, gialla, che ripensandoci oggi ricordava tanto (a parte il colore e molto altro) un modello Ferrari di Formula Uno dei primi anni Cinquanta. Nonno Giuseppe si alzò di prima mattina, scese a Sant’Antonio per salire in tempo sul postale che portava a Cosenza e andò espressamente a comprarla. Era così bella che diventò il giocattolo preferito anche da Francesco, il mio fratellino nato tre anni e mezzo dopo di me. Avevo però anche dei giocattoli più moderni, che funzionavano con le batterie. Una macchina della polizia americana, che si muoveva da sola e imitava il suono della sirena delle vere macchine della polizia. Una diligenza trainata da una doppia coppia di cavalli: bastava pigiare un bottoncino accanto al vano dei bagagli e i cavalli cominciavano a nitrire. O una locomotiva, anch’essa semovente, che dopo aver premuto l’apposito pulsante girovagava sotto le sedie del tavolo da pranzo ed emetteva il suono tipico delle locomotive, ma non potendo io governare il suo movimento andava sempre a sbattere contro i piedi della cristalliera o finiva sotto il lettino della nonna, concludendo senza sbocchi la sua corsa.

I giochi veri erano per strada e il più bello, per me, era il salto nella sabbia. Non era possibile praticarlo tutti i giorni perché doveva verificarsi un imprescindibile fattore esterno: serviva, soprattutto, ordinato dal capo mastro responsabile di un lavoro di ristrutturazione, un carico di sabbia depositato dal Leoncino nel cuore di Cirria, proprio sotto il muretto del nostro negozio, di fronte alla fontana installata nel 1893 dove per oltre un secolo si sono abbeverati animali e persone. Il salto nella sabbia era il gioco più bello perché rappresentava una sfida: il salto nel vuoto. Anche se, c’è da dirlo, mia madre non era molto contenta perché i granelli s’intrufolavano nelle scarpe, occupavano le tasche dei pantaloncini, i calzini, e lei doveva poi fare in modo che tutto tornasse pulito. Bastava un secondo per affondare con i piedi là sotto e poi di nuovo sul muretto per un altro salto. A volte però ci pensava la natura a farci smettere, non tanto la premura o i rimproveri dei muratori; perché quando pioveva l’acqua s’impastava con la sabbia e la sbriciolava, spargendola per la strada, facendola scorrere verso le rive della fiumara, che così si riprendeva quello che qualcuno – da qualche altra parte - le aveva tolto. …



Poi, molto tempo dopo avere effettuato l’ordine (mamma disse che erano passati più di quaranta giorni) il postino venne espressamente a casa nostra, un pomeriggio, per portare lo scatolone della Vestro. Dopo aver pagato, mamma prese il pacco e lo portò dentro casa, poggiandolo sullo stesso tavolo da pranzo dove molto tempo prima avevamo messo a punto l’ordine. Ero contento perché stavo per mettere le mani su quel cassone che già vedevo pieno di sabbia o di pietre, persino di pacchi di pasta da portare nelle case dei clienti del negozio di papà. Mamma prese le forbici e aprì il pacco. Le mutande, i cacciavite, i tegami, gli strofinacci: c’era tutto quello che avevamo ordinato. In fondo però c’era l’oggetto del mio desiderio, chiuso a sua volta in una confezione di carta spessa che però non sembrava integra. Mamma prese l’involucro con delicatezza ma agitandolo si accorse che qualcosa al suo interno ballonzolava. Mi guardò con gli occhi della delusione, capii che qualcosa non era andata per il verso giusto. Tolta tutta la carta ci accorgemmo che il camion ordinato era inservibile, inutile. Il cassone era spaccato, le ruote fuori dai loro assi, la cabina irriconoscibile. Mamma non riuscì a dire niente, io volevo piangere ma non lo feci, pensando che forse più in là ne avremmo comprato un altro, un modello più moderno. “Mi dispiace”, disse mia madre.



Uscii di casa, amareggiato. Non era giusto, pensai, dopo avere aspettato più di quaranta giorni, ricevere un oggetto così malridotto, da buttare. Mentre i pensieri mi assalivano (se lo restituiamo ci ridanno almeno i soldi?) sentii il rumore di un camion vero, che stava per entrare in via Piave. Si fermò accanto al muro sotto il negozio di papà, l’autista azionò il ribaltabile e in meno di due minuti scaricò un carico di sabbia. Un sorriso cancellò la mia amarezza. Aspettai con gli altri bambini che il camion si girasse per uscire da Cirria, ci mettemmo in fila sul muretto e ad uno ad uno tornammo a saltare sopra una montagna di sabbia.


(* i racconti di Giuseppe Casciaro sono anche pubblicati fino al 28 agosto nel supplemento estate del Quotidiano del Sud)







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