LA PUNTURA
E IL PRIMO GRAZIE

Il primo ottobre del 1966 fu un giorno particolare perché finalmente potevo dare sostanza a una parola che da qualche settimana riempiva i dialoghi tra mio padre e mia madre, una parola che faceva parte anche delle scarne frasi pronunciate dai nonni Giuseppe e Tresia ogni volta che mi avvicinavo a loro; e spesso sul finire dell’estate pure il fratello di mia madre, zio Salvatore, pronto a impegnarsi nel terzo anno del liceo scientifico, passando da casa per salutarci non mancava di ricordarmi che di lì a poco avrei affrontato il primo giorno di scuola. Scuola, ecco la parola che mi incuriosiva e stava per segnare una nuova stagione della mia infanzia. “Tra un po’ tutte le mattine metterai il grembiulino e il fiocco per andare a scuola”, diceva mamma. “Il primo giorno di scuola ti regalerò cento lire”, prometteva nonno Giuseppe; mentre zio Salvatore sosteneva che andando a scuola avrei imparato tante cose, anzitutto a leggere e a scrivere. In realtà qualche letterina ero già in grado di riconoscerla, frequentando spesso gli scaffali del negozio di generi alimentari di mio padre: la “p” di pasta, la “z” di zucchero, la “c” di caffè. Talvolta riuscivo persino a copiarle sulla carta oleata che serviva per avvolgere le fette di mortadella o su quella fina, quasi trasparente ma robusta, utile per incartare una scatola di zucchero o mezzo chilo di pane.
Ero andato pure oltre, perché molti giorni prima del primo ottobre strappai un foglio da un quaderno a quadretti di mio padre e lo usai per tracciare all’interno di ogni quadratino delle lineette verticali. Le primissime erano inguardabili, quelle dal terzo rigo in poi quasi decenti e le altre pressoché perfette. … Poi arrivò il mattino del primo ottobre e io mi sentivo pronto. Non essendo andato all’asilo non avevo cognizione di sveglie né di orari prestabiliti perciò il giorno prima, dopo la cena, dissi a mia madre di avvertirmi, di svegliarmi, insomma, perché ci tenevo a non arrivare in ritardo. Mamma sorrise e disse solo “va bene”. Stranamente quel giorno aprii gli occhi molto presto ma non essendoci orologi nella stanza dove dormivo non sapevo che ora fosse. Tempo addietro per strada avevo sentito dire da un ragazzo più grande di me che una giornata scolastica inizia di prima mattina, quando cioè i negozianti aprono le loro botteghe, gli impiegati in banca cominciano ad ascoltare le richieste dei clienti e i preti dopo l’ultimo scampanellio si avvicinano all’altare per celebrare la messa mattutina. Scesi subito dal letto pensando di essere in ritardo. Mio fratello dormiva nella culletta e in casa c’era silenzio. Non arrivava da fuori neanche un rumore, un grido, neppure l’eco di una radio accesa, un clacson, il lamento di un anziano. Nessuno a Cirria sembrava preoccuparsi del mio primo giorno di scuola. Così cercai i miei genitori, le sole persone che avrebbero potuto in quel momento aiutarmi, per chiedere come stavano realmente le cose. E la domanda che feci fu semplice e chiara: era vero o non era vero che dovevo andare a scuola?

Così mia madre mi spiegò come stavano le cose. Certo che era il primo giorno di scuola, ma da noi la scuola elementare funzionava in un modo che io non avevo considerato. Capii che negli edifici che ospitavano le classi spesso non bastavano le aule per accogliere tutti i ragazzini del paese alla stessa ora, alle otto e mezzo del mattino, così il direttore didattico decise che ci sarebbero stati due turni. Voleva dire che nella stessa aula la mattina ci andava un gruppo di scolari, il pomeriggio un altro, a mesi alterni. A me per il primo mese era toccato il pomeriggio. Dopo pranzo mamma mi suggerì di riposarmi perché mancavano ancora un paio d’ore all’apertura della scuola. Poi, dopo avermi preparato per bene, indossò il soprabito (sotto portava il vestito che di solito metteva in casa), tolse le tappine e calzò delle scarpe con un poco di tacco. Pettinò i suoi capelli, mi prese per mano e uscimmo. Per strada già si respirava l’aria della sera, il sole al tramonto regalava una luce rarefatta e le poche macchine in giro tutte avevano i fanali accesi. Un leggero batticuore, che oggi vedo come un misto di ansia e curiosità, accompagnò quel mio primo viaggio verso le Monachelle. La classe che mi era stata assegnata era in una specie di soffitta, male illuminata, solo una piccola finestra lasciava filtrare le prime luci della sera. Dentro c’erano già alcuni bambini, con brevi cenni ne salutai un paio, erano ragazzini di Cirria, della mia strada. Il maestro, in piedi davanti alla cattedra, salutò mia madre e le disse che potevo sedermi, lì, in quel banco vuoto tra la seconda e la quarta fila. Senza neanche un compagno affianco. No, non mi piaceva quella sistemazione. Guardai mia madre, le afferrai il braccio e la guardai intensamente per trasmetterle il mio disagio. “Mamma - le dissi sottovoce ma dentro di me tutto urlava - non voglio stare qui”. Due grosse lacrime scesero fino agli angoli della mia bocca. Arrivano sempre lì le lacrime, anche quando sei bambino, perché tu possa sentire quanto sono amare.
Mamma faceva finta di niente, poi le presi di nuovo il braccio e mentre il maestro era distratto le dissi ancora, scandendo bene le parole: “Hai capito? Vo-glio an-da-re a ca-sa”. Il maestro notò il mio imbarazzo e mia madre volle subito scusarsi per quanto stava accadendo. “È tanto delicato - disse contrita – non è stato bene in questi giorni, forse è meglio che lo porti via”. Il maestro anche se leggermente contrariato accolse la decisione di mia madre. “Ci vediamo domani”, gli disse mamma. Che mi dimostrò di avere capito tutto. La stanza e quella situazione nemmeno a lei piacevano, e quel maestro non le stava tanto simpatico. Tornammo a casa, mia madre confabulò con papà. Non so come fece (e oggi lei non lo ricorda) ma mamma il giorno dopo mi portò, sempre di pomeriggio e sempre alle Monachelle, in un’altra classe, in un’aula ampia, luminosa, con un compagno alto come me che mi aspettava all’ultimo banco. E un maestro più affabile che si chiamava Giovanni Berardi. …

Le cose in classe andavano bene. Avevo fatto amicizia con alcuni bambini che non erano di Cirria, mi divertivo a fare i compiti, a imparare a scrivere, a leggere. Però una mattina ebbi paura. Capii cos’era davvero l’insicurezza, la fragilità, la solitudine, compresi quanto a quell’età (e non solo a quell’età) un padre e una madre siano importanti per non farti sentire preda degli altri. “Domani - disse il maestro Berardi - viene un dottore e tutti dovete fare una puntura sul braccio, una vaccinazione”. Io, che non sopportavo la parola puntura né tanto meno la sua esecuzione, volevo morire lì, davanti a tutti, piegarmi su un fianco e precipitare per terra. Ma rimasi seduto, con gli occhi persi nel vuoto. Piansi, il maestro se ne accorse. “Cos’hai, Giuseppe?”. “Niente”, risposi singhiozzando. All’uscita venne a prendermi mamma. Avevo le lacrime già pronte. Piangevo ma provai - nel tragitto verso casa - a spiegarle perché ma i singhiozzi complicavano la comprensione delle parole. Mia madre comunque capì. Non disse nulla, mi regalò conforto, carezze, asciugò con il palmo delle mani il mio viso bagnato. Non c’era una soluzione apparente, dovevamo farla tutti quella puntura, pensavo, come avrebbe potuto salvarmi mia madre? Giunti a casa mamma cominciò a parlare con mio padre. Poi, dopo un po’, lei venne da me, sul letto dove mi ero rintanato. E sedendosi asciugò le mie ultime lacrime: “Non ti preoccupare – disse - domani ci parlo io con il maestro”. Aveva trovato la soluzione.
Io non ero un bambino come tutti gli altri. Gli anni prima della scuola avevo avuto una malattia della pelle, l’eczema, che mi lasciava segni sul volto, sulle mani, soprattutto se mi grattavo. Non potevo giocare con gli altri bambini e spesso dovevo mettere dei guanti per evitare il contatto con il resto del corpo, per questo non sono mai andato all’asilo. Un giorno, un paio di mesi prima del mio ingresso a scuola, il prurito e le macchie cominciarono a diminuire, fino a sparire quasi del tutto. Il dermatologo che mi aveva curato disse a mia madre che, vista la mia situazione, era meglio non farmi fare i vaccini, almeno nei primi anni di scuola. Mamma se ne ricordò e la mattina dopo i miei pianti mi portò a scuola. I miei compagni di classe erano già tutti con le braccia scoperte. Mia madre cominciò a parlare con il maestro, poi con il dottore che aveva la siringa in mano. Infine mi guardò e sorridendo disse “Non ti preoccupare, nessuno ti farà la punturina sul braccio”. L’abbracciai, le diedi un bacio e per la prima volta le dissi grazie.
(* i racconti di Giuseppe Casciaro sono anche pubblicati fino al 28 agosto nel supplemento estate del Quotidiano del Sud)
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