13 AGOSTO 2025

LE PAROLE ARCANE
DI MAMMAZIA

di GIUSEPPE CASCIARO



Condividi su:


Corigliano Calabro*

“Vieni a casa, zia Ninetta ti sta cercando”, mi disse ansante e trafelato Leonardo, detto Nardicielli, il ragazzino di Cirria che per duecento lire a settimana dava una mano ai miei genitori nel negozio di generi alimentari: metteva a posto quando c’era da sistemare e aiutava i clienti a portare le buste fin dentro le case. Ma Nardicielli si muoveva anche per molto meno: se necessario, portava solo un chilo di zucchero o duecento grammi di cioccolata sfusa, una bottiglia di Rosso Antico, un chilo di pane o mezzo litro d’olio. Finanche cento lire di confetti rizzi o una bottiglia di varechina. Oppure, su richiesta di mammà, recava mmasceti, messaggi a clienti o a persone di famiglia, come accadde quella mattina di novembre, alla fine degli anni Sessanta. Non ero a scuola perché in quel mese la frequenza era pomeridiana, quindi avevo dopo il risveglio e fino all’ora del pranzo tutto il tempo per dedicarmi alla mia occupazione principale: osservare e assorbire.

Quando Leonardo mi portò la mmasceta di mammà ero appoggiato a un muro di una vinella che se non ricordo male portava da un lato fino alla Ricella (dalle parti della falegnameria di mastro Pasquale, noto in paese più per la produzione di casse da morto che per quella di mobili) e dall’altro verso i pinnini (ovvero uno dei sentieri che conducevano i grandi, alcuni grandi, a varcare la soglia della casa del piacere dove esercitava Jolanda, provenuta a Corigliano dalla provincia di Reggio sul finire degli anni Cinquanta). Non ero lì per caso: fin dal primo mattino scesero per via Piave persone che non avevo mai visto prima di allora, persino un paio di grandi autovetture, forse furgoni, mai transitate dalle nostre parti. Quando notai anche un vigile urbano e una coppia di carabinieri capii che non potevo mancare. Accadde che alcuni abitanti del rione presentarono un esposto presso l’Ufficio di igiene pubblica del comune lamentando il fatto che da una delle case della vinella - abitata da una donna sola e anziana che si vedeva raramente per strada e che quando appariva mostrava un aspetto trasandato e sciatto – fuoriuscissero miasmi che nessuno riusciva più a sopportare. L’intervento delle autorità stabilì che in quella abitazione non c’erano le condizioni per vivere, essendo la casa occupata per lo più da decine di sacchi di immondizia e di vecchio materiale che doveva essere portato altrove.


(Foto pubblicata da Francesco Di Iuri nel gruppo Fb 'Coriglianesi nel mondo')


Mentre Nardicielli su richiesta di mia madre mi chiedeva di tornare dalle mie parti, gli uomini precedentemente osservati ultimavano le operazioni di svuotamento di quella che più che come casa poteva e doveva essere catalogata come topaia. Della donna nessuno di noi a Cirria seppe più nulla… Tornato a casa, mamma mi disse che aveva ricevuto una telefonata da don Gigino, il parroco della chiesa di Ognissanti dove esercitavo la funzione di chierichetto. Talvolta il prete mi convocava anche per pratiche che dovevano essere svolte fuori dall’edificio ecclesiastico, come la somministrazione di una estrema unzione a un malato in punto di morte. Quel giorno don Gigino mi cercò perché era stato chiamato in una casa di Cirria (a due passi dall’abitazione del muto, dove pochi giorni prima si era tenuto il ricevimento per uno sposalizio) perché c’era una persona, za Fraischella, per noi bambini mammazia, che a detta del medico non aveva un granché da vivere, essendo malata da tempo e inchiodata nel suo letto da un dolore che spesso – si diceva in giro – le faceva pronunciare frasi che parevano dettate da altre persone, se non “da un essere superiore”, sentenziò una mattina davanti al canalicchio mentre riempiva le sue gummule una donna pia e devota che non si perdeva neanche una delle messe celebrate da don Gigino e perciò ogni sua considerazione era ritenuta oro colato…

Mammazia era il nome di una categoria di persone, per lo più anziane, vicine alle famiglie per un vincolo di affetto o di parentela. Di affetto: perché poteva essere una donna che si era presa cura di te, che ti aveva tenuto in braccio fin dai primi pianti, dai primi sorrisi, dalle prime parole. O di parentela: perché poteva essere una zia di uno dei tuoi genitori o addirittura cugina di uno dei nonni. Nel caso di mammazia - za Fraischella si trattava di una nostra parente, essendo la sorella di mia nonna Tresia, quindi zia di mio padre. In giro per Cirria non l’avevo mai vista perché al tempo della mia nascita lei era già anziana e forse a causa di una malattia non era solita abbandonare la sua casa ubicata in un vicolo del rione detto u prainielli, a due passi dalla casa del muto. Ogni tanto con mammà andavamo a trovarla. Ricordo le sue parole dolci nei miei confronti. Rammento i capelli bianchi e scilligheti, le rughe decise come solchi lasciati da un aratro, le mani vigorose ma tenere.


(Foto pubblicata da Francesco Di Iuri nel gruppo Fb 'Coriglianesi nel mondo')


La mattina che il prete fu chiamato con urgenza per recarsi al capezzale di mammazia stava accadendo qualcosa di strano che nessuno dei presenti, né il figlio Ciccillo né la nuora Rosella né gli altri parenti appostati al capezzale riuscirono a capire. Perciò serviva l’aiuto di una tonaca nera visto che il medico si era già espresso e la sua diagnosi non era stata benevola. Così, mentre il rione viveva ancora il trambusto di quella mattina particolare (l’accumulatrice seriale di immondizia) io – come suggerito da mia madre – mi lavai le mani con un pezzo di sapone e mi pettinai per bene, visto che i capelli in quel tempo godevano di una certa e incondizionata libertà. Mi sedetti su uno dei dodici gradini che portavano nella mia casa e aspettai don Gigino… Don Gigino vedendomi mi chiese di fargli strada perché non sapeva bene dove fosse la dimora di mammazia; c’era passato per la benedizione delle case nel periodo pasquale ma non poteva ricordare ogni portone e chi vivesse dietro di esso. Così anticipando i suoi passi gli indicavo la via: salimmo verso la vinella che portava alla casa del muto. Subito dopo svoltammo a destra e trovammo l’uscio di mammazia. Non ci fu bisogno di bussare, Ciccillo e Rosella aspettavano il prete dietro la porta socchiusa spiando di tanto in tanto per verificarne l’arrivo.

Za Fraischella non stava per morire e basta. La trovammo con il busto ben poggiato sulla trabacca del letto, l’espressione vigile su un viso scavato dalla malattia e l’indice della mano destra puntato prima sul figlio Ciccillo, poi su un quadro della madonna, infine su Rosella, la nuora. Pensavo che mi avrebbe riconosciuto, immaginavo un sorriso spuntare da quella bocca sdentata e vedevo già l’indice indirizzarsi verso di me e una flebile voce che pronunciava il mio nome, Giusippielli, come lei, quando era completamente in vita, mi chiamava. Così non fu e accadde quello che nessuno di noi in quella stanza aveva mai visto e sentito… Mammazia era più viva che mai. E parlava, parlava, ma non facevano parte della nostra lingua, il coriglianese, quelle parole che uscivano libere dalla sua inconsapevole bocca. Sembrava italiano, quel modo di parlare che sentivo dal maestro o dal prete o dalla televisione. Mammazia, però, non aveva mai parlato l’italiano, forse non sapeva neanche cosa fosse. Diceva di aver visto la madonna e tutti i santi ma non riconosceva nessuno dei presenti.


(Foto pubblicata da Anna Elleboro nel gruppo Fb 'Coriglianesi nel mondo')


Don Gigino, con una croce di legno in mano, la guardava con commiserazione ma con il volto accigliato; ogni tanto, mentre recitava una delle sue preghiere, si tirava su i pesanti occhiali da miope ed essendo un poco raffreddato riuscì, mentre mammazia diceva di aver visto la madonna e tutti i santi, a soffiarsi il naso per un paio di volte, regalando un’atmosfera poco consona a quel momento che a me e ad altri pareva drammatico. A un certo punto don Gigino indossò la stola viola e mammazia cominciò a parlare una lingua ancora più strana, che quella davvero non l’avevo mai sentita. Intuii qualche parola, perché durante la messa c’era una specie di canto in chiesa che aveva assonanze con le parole dette da za Fraischella. Sì, era latino. Ma com’era mai possibile, lei che aveva sempre vissuto a ru prainielli, e non aveva mai parlato neanche l’italiano? “Don Gigì, ma come parla mammazia?”, chiesi sottovoce. Volevo in realtà dire: ma come diavolo parla… ma non mi sembrò il caso. Il prete mi guardò fissandomi senza rispondere, quindi si rivolse verso di lei, toccandole la fronte con le mani. Mammazia smise di parlare, di raccontare - in una lingua che non era la sua e neanche la nostra - lo svolgimento dei suoi innaturali incontri. Uscimmo da quella casa. Poche ore dopo mammazia, za Fraischella, la sorella di mia nonna Tresia, chiuse gli occhi per sempre. Portandosi dentro segreti e misteri, quelli della vita ma soprattutto quelli della morte.


(* i racconti di Giuseppe Casciaro sono anche pubblicati fino al 28 agosto nel supplemento estate del Quotidiano del Sud)







ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI FOGLIEVIAGGI



© Tutti i diritti riservati

Condividi su:

Foglieviaggi è un blog aperto che viene aggiornato senza alcuna periodicità e non rappresenta una testata giornalistica. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7.03.2001. Le immagini presenti sul sito www.foglieviaggi.cloud provengono da internet, da concessioni private o da utilizzo con licenza Creative Commons.
Le immagini possono essere eliminate se gli autori o i soggetti raffigurati sono contrari alla pubblicazione: inviare la richiesta tramite e-mail a postmaster@foglieviaggi.cloud.
© foglieviaggi ™ — tutti i diritti riservati «all rights reserved»