23 LUGLIO 2025

IL TELEFONO
LA TUA VOCE
IN CASA NOSTRA

di GIUSEPPE CASCIARO






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Corigliano Calabro*

Quando ero bambino avevo tutto il tempo per fare ciò che volevo perché non c’erano gli impegni, i compiti e le responsabilità imposti dalle età successive a quella dell’infanzia. La mia mente aveva pochi ma precisi compiti. Assorbire: assorbivo voci, odori, rumori, facce, urla, oggetti, parole, sapori, carezze, odori, lacrime, colori… Contare: davo un numero ai gradini che mi portavano altrove, alle foglie opache ma verdissime dei gerani, agli uomini che scendevano per la strada verso la casa del piacere, alle finestre chiuse e a quelle aperte, ai soldi nel salvadanaio, ai giorni che mancavano al mio primo giorno di scuola.

Tutto si svolgeva in un rigoroso silenzio e in una assoluta solitudine, così chi mi stava intorno non aveva il tempo di porsi domande sulla liceità dei miei comportamenti e delle mie scelte. Maturava in me il seme della crescita, cominciavo ad affinare le armi della conoscenza, costruivo il mio primo e indimenticabile bagaglio di esperienza. Ascoltavo con attenzione, per esempio, gli squilli che annunciavano l’arrivo di una telefonata. Ne ascoltai così tanti che alla fine riuscii a capire dall’intensità del primo di essi se si trattava di una urbana, di una interurbana oppure di una chiamata che veniva dall’estero.



C’è da dire - per mettere subito le cose in chiaro e non indurre il lettore in confusione - che in una casa normale non era frequente ricevere negli anni Sessanta tutte le telefonate che arrivavano da noi e i motivi erano almeno due. Il primo era legato all’attività di mio padre: vendeva bombole di gas e gli ordini arrivavano anche tramite il telefono. Il secondo aveva a che fare con la strada, con la gente che abitava intorno a noi. Gente dalla modestia pari alla nostra. Il nostro telefono, probabilmente, era l’unico del rione e veniva utilizzato come una sorta di posto pubblico di ricezione, assolutamente gratuito. L’apparecchio era non sul tavolino accanto al divano ma era stato fissato sul muro subito dopo l’ingresso. Mia madre, per non far stazionare in piedi le persone che venivano contattate tramite il nostro telefono, mise pure una sedia, tanto da suscitare la contrarietà di mio padre. Quasi sicuramente con ragione, papà lamentava il fatto che con la sedia a disposizione le persone che venivano a rispondere non avevano alcuna fretta di andarsene, tenendo oltremodo il telefono occupato. E se qualcuno chiamava per chiedere una bombola e trovava occupato, aveva tutta la libertà di contattare un altro rivenditore e mio padre avrebbe perso un cliente.

Mia madre, che era amica di tutte le donne di Cirria, madrina di battesimo di molti dei bambini che nascevano dalle nostre parti, che aveva una parola buona per ciascuna delle persone che passavano dal nostro negozio di generi alimentari chiedendo loro notizie dei congiunti assenti, non cedette di un millimetro, lasciando la sedia a disposizione di quegli ospiti che papà, dal suo punto di vista, considerava indesiderati. Tornando agli squilli, l’esperienza mi regalò questa piccola ma importante verità: se il primo era lungo voleva dire che si trattava di una chiamata urbana, quindi proveniente dal mio stesso paese, Corigliano; se invece lo squillo era corto, brevissimo, allora significava che chi chiamava era lontano, o molto lontano.

Non avevamo tante conoscenze fuori da Corigliano. A Milano c’era (e per fortuna c’è ancora) zia Linda, cugina di mio padre. Quasi sempre riconoscevo la sua telefonata dal primo squillo: corto ma non cortissimo. Corto – ormai il mio bagaglio si faceva sempre più ricco – era il segnale di una chiamata nazionale, interurbana. Cortissimo, roba da non crederci, poteva segnalare una telefonata proveniente dall’estero. La mia conoscenza dell’estero era molto limitata. Vedendo la televisione sapevo dell’esistenza (grazie alle parodie che ne faceva Alighiero Noschese nel varietà del sabato sera) di Paesi come l’America, la Russia e la Cina. E sapevo dell’esistenza, per altri motivi, di Germania e Argentina. In Germania, si diceva a Cirria, ci andavano gli uomini che non avevano un lavoro a Corigliano. Partivano e quasi sempre, grazie all’interessamento di un parente o di un conoscente già radicato da quelle parti, un impiego lo trovavano subito.



Muratori, camerieri, carpentieri, baristi, camionisti, giardinieri. Ricordo ancora i loro passi decisi, seguiti dagli occhi solcati dalle lacrime infinite delle madri, dai singulti nervosi e irregolari delle mogli, dai pianti spazientiti dei piccoli figli. I loro bagagli erano pochi e rappezzati, partivano per viaggi lunghissimi persino con scatole di cartone legate però da robuste corde ritorte. Molte delle famiglie di Corigliano negli anni Sessanta e Settanta hanno avuto un parente emigrato, in Germania o altrove. Quasi tutte le famiglie di Cirria, il mio rione, hanno avuto un padre, un fratello, un figlio che una mattina ha legato il suo bagaglio – poche cose per vestirsi e un paio di barattoli pieni di salsicce stagionate e piccanti - e ha preso il treno. Erano accompagnati dagli sguardi di tutto il vicinato; anche quelli che non avevano rapporti di parentela si affacciavano per osservare quei passi pieni di mestizia che potevano, però, rappresentare l’inizio di una rinascita…

Quando lo squillo era corto corto allora con molte probabilità era una telefonata dalla Germania. “Pronto, Cosimo, sono Antonietta, la tua sposa”, disse lei nel posto pubblico di ricezione (attrezzato come dicevo da mia madre subito dopo la porta d’ingresso della nostra abitazione) parlando con il marito partito ormai da mesi. “Quando vieni? Qui stiamo passando un po’ la fame, a me e ai bambini ci aiuta matrima che come sai ha la pensione ma non possiamo andare avanti per tanto tempo. Perché non mi hai mandato i soldi questo mese? Devo pagare i conti a ri putighi”. … Non tutti andavano in Germania. Altri restavano e spesso le loro attività non erano propriamente legali. Così ogni tanto qualcuno veniva prelevato dai carabinieri e portato lontano da casa. Anche loro avevano in tasca il nostro numero di telefono. “Sono Franco, chiamo dal carcere di Cosenza ma sto per uscire, mi ci fai parlare con mia moglie?”. Ci guardammo in casa, come se dovessimo compiere un atto contrario alla legge. Però, disse mia madre, se questa persona chiama dal carcere qualcuno gli ha dato la possibilità di farlo. Così s’affacciò sul terrazzino, con voce per niente stentorea, per tentare di contattare la persona giusta…

Un giorno il telefono emise uno squillo che non seppi decifrare, non riuscii a quantificare la durata del suono. Rispose mamma. “Pronto, chiamo da Catanzaro, so che lì dalle vostre parti c’è una persona che, insomma, ha fatto una figlia e non vuole più tenerla, insomma, ho il vostro numero perché mi hanno detto che mi potete aiutare”. Mammà si guardò intorno, quasi a voler nascondere l’eco di quella voce che solo lei aveva sentito e che considerava alla stregua di una bestemmia. “No, signora, non conosco nessuno che fa quello che dite voi”. E dall’altra parte: “Signora, aiutatemi, quella bambina starà meglio da me che a casa della madre e del padre”…



Quasi tutti a Cirria – come il lettore già sa - avevamo un parente emigrato. Il nostro congiunto però aveva scelto l’America, quella che parlava spagnolo e regalava praterie spesso immense e facili illusioni: l’Argentina. Prima toccò a mio nonno, subito dopo la conclusione della Grande guerra. Al suo ritorno partì mio zio, Giovanni, il fratello di mio padre. Poi arrivò un giorno d’estate e con esso uno squillo davvero corto. “Pronto, pronto, chi parla?”, disse quasi urlando mio padre. “Carlo, sono Giovanni, tuo fratello”. “È Giuvanni, è Giuvanni”, disse papà con le lacrime agli occhi. Tutti ci avvicinammo alla cornetta, come verso una scodella piena di pasta al ragù dopo un periodo di digiuno. Papà era raggiante; mio nonno non riuscì a contenere le lacrime e mia madre, che aveva molto e altro da fare, trovò il tempo di passarsi un fazzoletto di stoffa sugli occhi e per giustificare la debolezza del gesto disse che forse stava arrivando l’allergia di stagione. Poi, dopo, ciascuno di noi tornò ai propri movimenti, ai propri pensieri…

Per quel giorno avevo assorbito abbastanza, Così uscii per strada e cominciai a contare: le piastrelle che pavimentavano il terrazzino, le macchine parcheggiate, le lenzuola stese ad asciugare. E inspirando profondamente riconobbi un odore: quello di un sugo di carne che promanava proprio dalla mia casa e che senza alcun dubbio avrebbe costituito, con un contorno di rigatoni, il mio pasto serale.


(* i racconti di Giuseppe Casciaro sono anche pubblicati ogni giovedì, fino al 28 agosto, nel supplemento estate del Quotidiano del Sud)







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