20 novembre 2023

POTLACH
LE CITTÀ INVISIBILI / 2
UNA INCREDIBILE
TOURNÉE

di LUIGI ALCIDE FUSANI




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'Città Invisibili' - ne ho scritto nella precedente puntata di questa rubrica - fu un successo straordinario. Per settimane, per mesi, persone a me sconosciute mi fermavano per strada: “Professore, si ricorda che bello quando abbiamo aperto il parco del Martini, per quello spettacolo... Cos'è che facciamo l'anno prossimo?”.

“Facciamo”, “Abbiamo”... erano diventati tutti soci e collaboratori.

Per quanto mi riguarda, Pino Di Buduo, uno dei fondatori del Teatro Potlach, continuò a coinvolgermi nella scena della 'Dolce Vita', quella con Natasha. Maurizio era stato dirottato su un frammento di Eduardo, tratto da “Natale in casa Cupiello”. Stava al centro di un telo bianco, rotondo, enorme e, secondo i più rigorosi canoni del teatro epico-brechtiano, entrava e usciva dal personaggio, commentando con il pubblico il testo di Eduardo.



A Cosenza a me e a Natasha successe una cosa simmetrica a quella di Abbiategrasso. Mentre là una ragazza cercava di convincere Natasha a lasciarmi e ad andare via con lei, qui a Cosenza a intervenire fu un uomo. “Ma cosa vuole quella... ma mandala via... lasciala lì... fatti rispettare!”. A complicare le cose intervenne anche la moglie del tizio: “Bravi che siete tutti e due, tu e quell'altro lì... col cappello... guarda che faccia... è arrivato Gey Ar...”. Erano i tempi di 'Dallas' e la signora aveva preso il mio Panama per un cappello texano.

Invece, quando stavamo per partire per Parigi (“Le città invisibili” lo abbiamo recitato anche a Parigi... in periferia, ma pur sempre Parigi) Pino mi telefona: “Luigi, ascolta... devi procurarti un vestito da prete. Poi ti spiego”. Mio figlio era un ragazzo che frequentava ancora l'oratorio, e conosceva bene il “don”; io lo conoscevo solo di vista. Per farla breve, mio figlio spiega il mio problema al giovane prete; lui se la ride e senza fare obiezioni mi presta uno di quei bei tonaconi con tutta quella fila di bottoni sul davanti.


(foto di Lorenza Daverio)


Appena arrivato a Parigi, un assistente di Pino mi dice di cambiarmi in fretta e di farmi trovare già pronto. Io mi preparo e cerco anche di assumere un atteggiamento consono: espressione compunta, testa leggermente reclinata sulla sinistra, come un gesuita-collotorto, braccia incrociate sul petto a sostenere una vecchia Bibbia dalla copertina nera. Movimenti lenti e controllati. Un ragazzino mi vede passare e rimane interdetto: “Signore, ma voi siete un vero curato?”. Faccio un leggero segno di sì con la testa... non posso mica deluderlo. Pino mi vede e per tre secondi rimane senza parole, poi scoppia a ridere: “Luigi... mi fai impressione!”. Calato nel mio ruolo, non posso fare altro che benedirlo.

Durante lo spettacolo io, in una palestrina, ero in relazione con un gruppo di ragazze magrebine che venivano da una scuola di danza del ventre. La situazione presentava parecchi motivi di conflitto. Uomo/donne, cristiano/musulmane, vecchio/giovani... Le ragazze si prendevano gioco di me; mi danzavano intorno, seducentissime, e io cercavo di resistere, ma poi cedevo e danzavo anch'io con loro, poi mi pentivo e mi gettavo in ginocchio a chiedere perdono al Padre Mio, finché le ragazze non mi aiutavano a risollevarmi e non mi coinvolgevano di nuovo nel loro gioco seduttivo.


(foto di Lorenza Daverio)


Il finale dello spettacolo era incredibile. Il corteo si riuniva e tutti noi che avevamo partecipato convergevamo verso una grande palestra. L'ambiente era immerso nella penombra. Al centro un vero ring per il pugilato. Qui, un pugile di origine nord africana, in felpa da allenamento, stava giocando di scherma contro un avversario immaginario. Nel silenzio si sentiva solo il suo affanno, e i suoi gemiti per lo sforzo. Sugli spalti, noi e il pubblico lo osservavamo in un silenzio denso e sospeso. Dopo qualche minuto si accendono le luci e Pino sale sul ring per spiegare. Quel pugile era stato il campione europeo; dei pesi medi... credo. Pino racconta che su quel ring si era combattuto l'incontro che gli aveva fatto guadagnare il titolo. Uno psicodramma. Il pugile stava combattendo ma non ne poteva più; mancavano due riprese alla fine. “Basta! Basta!... non ce la faccio più... butta la spugna...”. Il suo allenatore ha una intuizione geniale: mentire!

“Ma come, butti la spugna proprio adesso, all'ultima ripresa!?”, “Ma no, ne mancano ancora due...”, “No questa è l'ultima, non puoi ritirarti agli ultimi tre minuti... resisti... tira fuori tutte le tue energie... devi finire l'incontro in piedi”. Il pugile, che è un po' rintronato, gli crede, va al centro e colpisce l'avversario con tutta l'energia che gli è rimasta. KO. Campione d'Europa. Il pugile diventa l'eroe della banlieue.

Io e metà del pubblico avevamo i lacrimoni agli occhi.


(foto di Lorenza Daverio)


L'ultima 'Città Invisibile' in cui sono stato coinvolto è stata Mantova. Mantova è un gioiello. Avevo fatto lunghe passeggiate soprattutto serali e notturne da Piazza delle Erbe a piazza Sordello, e giù giù fino al lago, costeggiando Palazzo Ducale. Mi ero reso conto subito che per affascinare una città come Mantova bisognava fare qualcosa di unico... un “Città Invisibili” straordinario. Ne parlo con Pino. Anche lui si rende conto dell'impegno che l'impresa comporta. Quando il Potlach arriva in città, io e Pino facciamo un giro. Nel cuore del Palazzo Ducale, in piazza Pallone, sotto le finestre dello studio di Isabella d’Este, Pino è colpito dagli alberi maestosi, tigli profumatissimi, “Vedi...? – mi dice - Guarda questi alberi. Quanti anni avranno? Duecento? Trecento? Quattrocento? Chi li ha piantati aveva in mente una prospettiva che andava ben oltre la sua vita... Oggi nessuno fa più nulla con una prospettiva così lunga. Chi è che fa qualcosa pensando a quelli che verranno tra quattrocento anni? Guarda questo palazzo. Questa (i Gonzaga, NdR) era gente che pensava in grande”. Pausa. “Pensa ai politici di oggi: di tutti loro tra cento anni si sarà persa ogni memoria...”. “Per fortuna!”.


(Mantova - foto pixabay)


Abbiamo riso. Pino è rimasto a pensare un po', poi a voce bassa e lenta: “Il percorso lo facciamo cominciare da qui”. Pausa. “Tendiamo un telo ad avvolgere questi alberi, come fosse un circo aperto... poi, al centro, vicino alla magnolia, mettiamo un pianoforte a coda con un pianista che suoni qualcosa di magico”. Altra pausa. “La magnolia la illuminiamo tutta con dei fari rossi... e intorno un cavaliere... un cavaliere su un cavallo... che gira lentamente, vicino al telo teso... e a terra mettiamo dei riflettori che proiettano l'ombra del cavallo sul telo. Il pubblico che entra nel cortile, ma rimane fuori dal telo, sente la musica, il passo del cavallo... e vede la sua ombra muoversi... come fosse un film...”.

Era magico solo a sentirlo dire...

“Ma io, un cavallo dove te lo trovo?...”. “Domani proviamo a chiedere a Fabio...” (Fabio era il direttore organizzativo). Il giorno dopo Pino, appena lo vede, attacca: “Il posto è bello, si può fare un grande evento... Ma c'è bisogno di un cavallo... se non c'è un cavallo...”; apre le braccia e scuote la testa come per dire “non si può fare niente...”. Fabio si mette a ridere: “Di che colore lo vuoi?”.

Non so dove Fabio lo avesse trovato, ma insomma... Al pomeriggio c'era il cavallo. Era una splendida cavalla nera, nervosa, irrequieta. Non per niente si chiamava Pepe. Da lì in poi tutto è filato via liscio come l'olio, fino a una Città Invisibile strepitosa.

Il resto ve lo racconto la volta prossima.







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