La lezione balcanica e una moneta senza sogni

di ANNA DI LELLIO

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Era la primavera del 1999 quando ebbi una accesa discussione con una carissima amica, una filosofa teorica di eccezionale livello e certamente più preparata di me a disquisire di sovranità, istituzioni e democrazia (spoiler, non era Nadia Urbinati), perchè lei sosteneva che sia istituzionalmente che economicamente oramai era fatta: avremmo vissuto in un’ Europa integrata politicamente ed economicamente, gli stati nazionali erano finiti.

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La federazione jugoslava dal sito Yugotour

Eravamo entrambe emigrate negli Stati Uniti agli inizi degli anni '80 per continuare gli studi. Cambiando paese, cambiai anche pelle. Da idealista diventai pragmatica. Ne avevo le tasche piene di sentir parlare della “visione alta e complessiva,” o dei “valori,” che aveva cominciato a suonarmi come la costrizione ad adottare acriticamente una rifrittura di frasi pre-confezionate, servite come buone e giuste indipendentemente da cosa ne pensasse un individuo – nella fattispecie, me.

Dall’altra parte dell’oceano, l’Europa mi sembrò subito tanto piccola e poco rilevante anche se diventava sempre più unita e allargata, promettendo di farsi più potente e ricca, grazie ad una nuova moneta che potesse sfidare il dollaro. A quella promessa non credetti allora e non credo ora. Non ci ho mai creduto.

Non ero d’accordo con la tesi della mia amica per il motivo opposto a quello che in quarto ginnasio, negli anni '60, aveva fatto convocare i miei genitori dal preside, scandalizzato dal tema che consegnai in occasione della giornata dell’Europa. Avevo scritto che l’unità Europea non solo non esisteva, ma non sarebbe mai esistita né sarebbe stata auspicabile, perchè l’unica unità possibile e auspicabile era quella del proletariato. Quasi quaranta anni dopo non mi era rimasto alcun ideale di unità da costruire a tavolino, o in piazza, in tempo relativamente breve, e certamente non del proletariato. Quell’ideale era stato sostituito dalla consapevolezza che invece bisognava lavorare pragmaticamente su una realtà sedimentata, magistralmente intessuta nel tempo, ma anche vischiosa e costantemente manipolabile e manipolata: la nazione.

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Il maresciallo Tito

Non ero arrivata a quella conclusione pensando alla teoria politica ma neanche alla storia. Negli anni '90 era scoppiata la guerra in Jugoslavia. L’unico paese plurinazionale e federato in Europa era imploso. Fu una sorpresa solo per chi aveva creduto che la Jugoslavia fosse quella delle brochure turistiche e dei saggi nostalgici su un comunismo mai esistito: paese povero ma non troppo, dirigista ma non troppo, centralizzatore ma non troppo, e non troppo libero ma abbastanza.

Quando l’unità sovranazionale della Jugoslavia, tenuta insieme da Tito per trentacinque anni con un pugno di ferro e varie alchimie politiche, si infranse, rimasero solo nazioni in guerra. Si stuprarono e ammazzarono tra di loro. Distrussero monumenti e siti religiosi. Espulsero da quelle che consideravano le loro terre la gente di altre nazioni che vi abitava da secoli; quando non riuscirono a farlo, li liquidarono, riconfigurando i confini per restare sempre e solo in famiglia. I morti civili di quella implosione sono stati contati con accuratezza solo recentemente: sono tra i 130 e i 140 mila, e 40 mila gli scomparsi, cioè i morti di cui non si sono ancora trovate le spoglie.

“Questa è l’ora dell’Europa, non dell’America,” disse il ministro degli esteri del Lussemburgo Jacques Poos nel giugno del 1991. Poos era convinto, e non era il solo in Europa, che pagando un miliardo di dollari al paese più grande e forte dell’arcipelago jugoslavo, la Serbia, in cambio di una rinuncia ad aggredire Slovenia e la Croazia, e chiedendo a queste ultime di rimangiarsi la dichiarazione di indipendenza, avrebbe fermato la guerra. Fu un’ora disastrosa per l’Europa invece, perché ogni nazione europea decise per conto suo il cosa fare, o per essere precisi, non fare, lasciando libero campo a chi la sovranità la vedeva solo come un campo da macello.

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Il cimitero di Srebrenica

La prima tornata delle guerre jugoslave finì nel 1995, dopo che i serbi bosniaci sterminarono 8 mila mussulmani bosniaci a Srebrenica e gli americani dissero basta. A gennaio del 1999, mentre l’Europa festeggiava l’euro, cominciò la seconda tornata, questa volta in Kosovo. L’arrivo dell’euro lo ricordo poco perchè ero a New York e non seguivo le notizie sui trionfi europei ma l’aggravarsi della crisi in Kosovo.

Dal mio punto di vista, l’Europa si confermava solo come un fallimento. Ricordo però come mi impressionassero alcune conversazioni con conoscenze italiane, scioccate dal fatto che gli albanesi del Kosovo volessero diventare indipendenti dalla Serbia. Quelle stesse persone, che consideravano (e ancora considerano) non rilevante il fatto che Milosevic avesse bandito la lingua, la cultura e la storia albanese dal Kosovo, avevano le lagrime agli occhi pensando al bando della lira, simbolo imprescindibile di un’identità italiana ormai persa.

Gli albanesi del Kosovo li ha salvati l’America quando ha persuaso la NATO ad agire ed è riuscita a portarsi l’Europa dietro. Durante la guerra della NATO contro una Jugoslavia così rimpicciolita da comprendere solo Serbia e Montenegro, lavoravo con l’ONU nei campi profughi di Kukës, nel nord dell’Albania, poverissima zona di confine dove la guerra portò una babele di monete. Al mercato si usava il lek albanese con l’obbligatorio ritratto di Skanderbeg, ma non compresi mai il valore di quella valuta. I profughi Kosovari avevano soprattutto marchi tedeschi dei parenti emigrati, almeno quelli che erano riusciti a salvare, perché cuciti nei vestiti, dalla rapina dei soldati serbi che li avevano espulsi da casa. Noi dell’ONU usavamo dollari, ma poi un bel giorno del giugno 1999 la guerra finí, e con i profughi andammo a Prishtina. Credo di aver visto lì qualche dinaro jugoslavo, ma non ricordo, era giá quasi completamente scomparso dalla circolazione. Poi arrivó l’euro e tutto cambiò.

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Kosovo, durante la guerra

Nei miei viaggi di riposo e recupero in Italia in quell’estate del 1999 ebbi modo di ascoltare le lunghe lamentazioni dei miei connazionali che non si erano abituati alla nuova moneta e facevano traduzioni costanti in lire di tutti i prezzi. Io mi confondevo a quei discorsi e temevo sempre di sbagliarmi, come quando ero in Francia, dove dopo decenni dall’introduzione del nuovo franco, adottato nel 1960, si continuava a moltiplicare per cento ogni unità e io sobbalzavo ogni volta che mi si presentava un conto. Con l’euro c’erano poi resti infiniti di monetine sempre più piccole che non si sapeva dove mettere e di cui non si capiva l’uso finché non si faceva la traduzione in lire e i centesimi venivano nobilitati.

In Kosovo fu tutto completamente diverso. Quando arrivó l’euro nessuno si scompose. Gli albanesi del Kosovo non hanno mai avuto la loro moneta, e il lek dei loro fratelli di sangue non li attirava nonostante l’amore per la patria. Finiti i marchi sono passati facilmente all’euro, ma niente centesimi. Al massimo si usavano le monetine da cinque, ma molto più spesso i prezzi venivano arrotondati: 2 euro, non 1,98 né 2,03. Trovai il loro atteggiamento piú adatto all’uso che si deve fare della moneta, che è quello di averne il più possibile per poter poi spenderla a seconda di bisogni e piacere, ma non di adorarla come un relitto di famiglia o un ideale di progresso.

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Non sono naïve e capisco, anche se non in dettaglio, quanto sia complesso il rapporto tra le economie dei paesi europei, la loro gestione nazionale e quella sovranazionale, e qui nel mucchio metto anche le difficoltà politiche e tecniche delle politiche monetarie. Ma proprio per questo l’euro per me non è mai stato un simbolo, ma una moneta le cui vicissitudini sono e saranno necessariamente complicate e chi se ne occupa deve navigare scelte contraddittorie, a volte magari sbagliate.

Non saprei, se qualcuno me lo chiedesse, fare un bilancio di questi vent’anni di euro ed Europa. La questione, ora come sempre, è di viverci insieme, senza gran sogni, ma pochi principi, i soliti: diritti, libertà, competenze, e responsabilità.



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