10 ottobre 2022








PAESTUM
E IL TUFFATORE
LA GRAZIA
DI UN TRAPASSO

di ANGELO MASCOLO

(Il tuffatore)

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L’uscita di Battipaglia è insolitamente tranquilla. Nessuna coda né frotte di automobilisti che si accalcano presso qualche improvvisato chiringuito. Il motivo è presto spiegato: siamo ad ottobre e per di più a inizio settimana. Sebbene il caldo sia ancora quello di agosto, e picchi in testa all’asfalto, gli stuoli di bagnanti sono ormai un ricordo. Davanti a me a braccia spiegate si apre la SS18 che senza soluzione di continuità termina la sua corsa a pochi chilometri da Capaccio Scalo e dal Museo Archeologico di Paestum, destinazione di questo mio piccolo viaggio. L’intermezzo è tutto punteggiato da terra argillosa e bruna, serre e vecchi ruderi di fattorie risalenti alle bonifiche del Ventennio fascista. Tutt’intorno l’aria profuma di vino e bufale allevate nelle varie tenute presenti in zona. A proposito di bufale: per una decina di chilometri resto incollato a un furgoncino che reclamizza un famoso brand di mozzarella. Superate una serie di rotonde e cartelloni pubblicitari di ogni tipo, e anche il furgoncino, la SS18 cede il passo alla SP276. Paestum mi accoglie con le sue possenti mura di età arcaica. Ma prima ancora della città è il suo elemento naturale per antonomasia a darmi il benvenuto: il Sele.


(Il museo archeologico di Paestum)


Il fiume sfocia proprio a pochi passi dalle antiche rovine pestane. Le sue acque placide segnano, oggi come allora, il confine tra la città antica e il resto del mondo. Non è un caso, infatti, che i coloni giunti dalla città di Sibari avessero eretto presso le sue sponde un Heraion così imponente da rivaleggiare con quello di Olimpia. Un tempio in onore della regina degli dei, con funzioni di emporio, ma soprattutto un semata, ovvero una linea di demarcazione per un territorio che già si annunciava vasto. Dentro l’alveo del Sele gli antichi abitanti di Poseidonia (l’antico nome greco di Paestum) elevarono una città straordinaria. Templi, piazze ed edifici di ogni tipo. Uno dei capisaldi della colonizzazione greca in Occidente. Ed eravamo appena nel VII sec. Quasi tremila anni fa.


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Tuttavia ho coperto i quasi ottanta chilometri non tanto per i templi, le mura o l’agorà. Sono qui, in questa giornata di ottobre mascherata d’estate, perché non vedo l’ora di entrare al Museo. Ci si arriva da un lungo viale alberato con una cancellata in ferro che delimita lo spazio del parco archeologico. I templi subodorano la mia presenza dal primo passo. Ciclopi di pietra, con i timpani a prendere il posto dell’unico occhio, e le colonne doriche al posto di gambe possenti.


(Tomba del Tuffatore, scene con cottabos, al centro, e amanti, a destra)


Sento l’aria condizionata sul collo non appena entro. La fila è ben nutrita. Una schiera di cappellini bianchi e nuche arrossate. Ma non vado di fretta: piuttosto è come se mi stessi preparando a qualcosa che forse non sono ancora pronto a vedere. Eppure conosco questo museo abbastanza bene, ci ho studiato, sono stato nei suoi archivi e depositi. Cosa mi intimorisce dunque? La risposta è lì, a una decina di metri da me: la Tomba del Tuffatore. Non l’avevo mai vista. Guardata un milione di volte ma mai vista veramente. Perché mai sono stato davanti a questo reperto eccezionale della pittura funeraria greca; mai ho poggiato lo sguardo su quei colori caldi e toccanti; mai fissato negli occhi quegli uomini, maturi e giovani, parte di un mondo rimasto cristallizzato nei secoli. Un mondo pieno di vita, di momenti piccoli e intimi, tutto votato alla convivialità e alla raffinatezza e soprattutto a una concezione di un tempo lento che la modernità ha irrimediabilmente distrutto.


(Il tempio di Nettuno a Paestum)


Le lastre che compongono questa tomba – datata intorno al 480/470 a.C. e cioè agli albori dell’età classica – dovevano vigilare il sonno eterno di un giovane membro dell’aristocrazia pestana. Un’opera di morte e bellezza diventata emblema di un’intera civiltà. Perché osservare questi dipinti equivale a entrare nella mente di queste persone, a sondarne i pensieri, ad assaporare il lato più recondito di una società irrepetibile. A chiudere questa sequenza di banchetti e convivi la scena rappresentata sul coperchio col celebre tuffo. Un uomo che si è appena lanciato dal piedistallo di una colonna; sotto di sé vorticose acque pronte ad accogliere quello slancio. Ormai è acclarato che si tratti di un tuffo simbolico, un rito di passaggio dalla vita alla morte. Ma ciò che mi commuove alla vista di queste immagini è la compostezza. Perché la civiltà che ha prodotto tutta questa bellezza trovava dignità e nobiltà persino nella morte, il momento di passaggio supremo.



Se si osserva bene il tuffatore si nota che i suoi movimenti non sono sgraziati o nervosi. La sua figura è compatta, armonica mi verrebbe da dire. Una sorta di invito a non temere non solo la morte ma qualsiasi tipo di cambiamento. Una lezione di una nobiltà da togliere il fiato. D’altronde il filosofo Epicuro, vissuto ad un secolo esatto dalla realizzazione della Tomba del Tuffatore, esprimerà il concetto secondo cui è "stupido temere della morte: perché quando ci siamo noi, non c’è lei; e quando c’è lei non ci siamo noi".







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