Il bello del Pirelli Hangar Bicocca è il suo gigantesco aspetto anonimo e per questo vagamente misterioso: in pratica è un cubo di cubatura non facilmente immaginabile coperto da un semplice tetto a volta. Negli anni Sessanta a Milano, ma non solo, i capannoni industriali si facevano così. All’epoca potevi immaginarci dentro locomotori ferroviari, oggi se non ci sei mai stato potresti anche credere che sia la casa di un orco ciclopico e spaventoso. E invece qui è di casa la grande arte, per le dimensioni, ma non soltanto ovviamente.
Perché proprio in questi giorni per esempio e fino al 31 luglio sotto la "Navata" unica della Bicocca - che sale fino a una trentina di metro dal suolo - si possono ammirare alcune grandiose opere di arte visiva di Steve McQueen. Non l'attore americano iconico dell'antieroe anni '70, ma il regista premio Oscar nel 2014 per il film “12 anni schiavo”, nato a Londra nel 1969, quando il suo omonimo d'oltreoceano stava probabilmente girando le scene del leggendario Bullit. Ma l’Oscar è solo uno dei premi, forse il più popolare: McQueen il regista, l’artista, ha vinto quasi tutto nel cinema e nelle arti visive: ha partecipato a quattro Biennali di Venezia, gli è stato assegnato il Turner Prize, riservato agli artisti under 50, è scultore e fotografo... Insomma un vulcano.
In questa zona dell'ex periferia industriale milanese, per decenni uno dei più importanti insediamenti produttivi italiani (qui si concentrarono gli stabilimenti di Breda, Falk, Pirelli e Marelli), McQueen ha scelto di presentare in anteprima mondiale la mostra “Sunshine State” che eredita il titolo dall'opera commissionata e prodotta dall’International Film Festival di Rotterdam e che sempre qui ha visto la luce in pubblico per la prima volta. In tutto solo sei opere filmiche e una scultura, ma c'è di che restare sazi a lungo, un po' come quando vai a vedere un solo quadro di un grande pittore. Insomma, la sensazione è che questa vecchia Bicocca, così monolitica nel suo aspetto esterno, sia in realtà lo scrigno del genio artistico. Che se vuoi, in questo caso, potrai persino incontrare di persona: il 13 maggio alle 19 qui alla Bicocca, in via Chiese 2, Steve McQueen discuterà sulla genesi e le tematiche di Sunshine State con Cora Gilroy-Ware, storica dell’arte e autrice di un saggio per il catalogo della mostra. La conversazione sarà in inglese, con traduzione simultanea. Ingresso gratuito, ma prenotazione obbligatoria (a questo link: Una Conversazione tra Steve MᶜQueen e Cora Gilroy-Ware - Pirelli HangarBicocca) perché ovviamente è prevista una grande affluenza di pubblico.
Nell’attesa, se ti fidi ti porto io a fare un giro.
Intanto l'impatto con la mostra, frutto di una collaborazione tra Pirelli Hangar Bicocca e la Tate Modern di Londra, è decisamente forte. Tu entri in un gigantesco ambiente immerso nell'oscurità: fai conto un cinema, però molto più grande, però senza sedie in platea. E lo schermo è gigantesco e si trova al centro e non sul palcoscenico. E si trova al centro perché il filmato che scorre sullo schermo è la ripresa dall'elicottero di una circumnavigazione della Statua della Libertà. Come dire: la Libertà al centro del nostro universo. E senti il rombo del motore e le pale dell'elicottero che schiaffeggiano l'aria e insomma ti sembra di essere a bordo e ti pare davvero che la libertà sia la più bella e la più importante delle cose da ammirare. E vedi gli omini che si affacciano dalla sommità del Monumento e pensi che se ci sei dentro, alla Libertà, sia più difficile apprezzarne la bellezza e la grandiosità e però non vedi lo stesso l'ora di stringere la tua rotta circoncentrica e di atterrare con l'elicottero sulla sua fiaccola.
E' il bello dell'opera d'arte: l’osservatore può immaginare quel che vuole. Io ho immaginato questo. Intanto l'elicottero gira, senza sosta, in loop. E' un film girato in pellicola 35 mm e poi trasferito in HD su memoria digitale. Si intitola Static, però qui si muove tutto. Poi scopro che è stato girato nel 2009, nel giorno della riapertura al pubblico della Statua simbolo degli Usa dopo l'attentato del 2001 alle Torri Gemelle. E allora il concetto di libertà mi è ancora più chiaro, ma mi sembra incredibile che per raffigurarlo sia stato sufficiente girare con un elicottero intorno a un monumento. Perché in fondo l'arte è fatta con ingredienti semplici. Ma prova a farla... Lui, McQueen, la vede così: "L'arte è la cosa più difficile che puoi fare al mondo perché non ci sono regole, tranne la gravità". E lui per vincerla infatti ha usato un elicottero.
Qualche passo dopo il volo intorno alla libertà ti rendi conto che il cinema in cui ti trovi è così grande che si ci potrebbero vedere tanti film tutti insieme. E infatti va proprio così, perché poco più in là su un piccolissimo schermo di formato A4 o giù di lì scorre senza soluzione di continuità il filmato di un occhio. Dominante rossa, palpebra che si apre e si chiude, dito (quello del regista) che ogni tanto la tocca e poi tocca pure il bulbo, quasi come se fosse incuriosito, forse ansioso di trasmettere a chi osserva qualche informazione in più su quell'occhio, al di là dell'impatto visivo appunto. In modo persino un po' invadente. Il film, realizzato da McQueen nel 2004, gira in loop tra una bobina e l'altra di un proiettore analogico 16 mm. Si intitola Charlotte. Strano eh? Beh no: perché quello è l'occhio di un'attrice famosa, Charlotte Rampling.
Molto più personale è invece l’opera successiva: Cold Breath. Stesso supporto di celluloide, proiettore analogo. E' del 1999. Qui l'immagine che scorre senza sosta sullo schermetto è uno strofinamento di capezzolo, colore uniforme, piuttosto contrastato. Il capezzolo e le dita che lo strapazzano sono dell'autore. Il principio è molto simile a quello di Charlotte. Dopo un po' che lo guardi quasi trascende dal contesto e incomincia a diventare un'astrazione, l'astrazione del guardare: "L’immagine del capezzolo - ha spiegato l'autore - è come un occhio, per questa ragione ho voluto esplorarla, per indagare la sensibilità del tocco". E alla fine l'osservazione del tocco diventa quasi ipnotizzante.
Quando ti scuoti, è il momento di entrare nel cuore della mostra, ovvero di assistere alla proiezione di Sunshine State, installazione nata nel 2022 che, come ti dicevo, dà anche il titolo a tutta la mostra. È un’opera straniante che gioca a spiazzarti, a disorientarti e poi a rimetterti sul binario giusto della percezione visiva e cognitiva: il dritto e il rovescio, il bianco e il nero, il positivo e il negativo. Sai che mi viene voglia di non dirti altro? Però io non sono un artista e devo seguire qualche regola. E allora ti dico l’essenziale. Sunshine State in pratica è un doppio salto vitale carpiato in avanti e all’indietro. Per essere più chiaro, si stratta di due video Hd proiettati sui due lati di due schermi affiancati. All’inizio compare il sole che brucia, pure lui doppio: su uno schermo si vedono i dettagli della superficie infuocata e sull’altro la stella che lentamente si allontana. Ecco, la parte a colori, accompagnata dalla voce narrante del regista, è tutta qui. Si prosegue in bianco e nero: partono le immagini di una pellicola che ha scritto un pezzetto di storia del cinema: The jazz singer, 1927, che ha come protagonista il cantante Al Jolson ed è il film in cui per la prima volta il sonoro dei dialoghi è sincronizzato con le immagini, con il labiale. Ma mentre su una metà dello schermo si vede una parte del film in positivo, nell’altra metà si vedono altre scene dello stesso film in negativo, a volte persino in retromarcia... Intanto la voce di McQueen racconta un episodio della vita di suo padre. Come va a finire il film però non te lo dico, mi sembrerebbe un dispetto, anche se si tratta di un finale che non chiude una storia, ma conclude un’opera d’arte.
Quando ti alzi, un doppio fascio di luce in pratica ti obbliga a scoprire l’installazione successiva che, sempre per restare in tema di contrasti, è l’unica per la quale non sia previsto il minimo movimento. Moonlit è di una immobilità granitica eppure evoca rigenerazione: si tratta di due blocchi di marmo rivestiti di una lamina argentea con i quali McQueen vuole ricordare l’asteroide che 66 milioni di anni fa colpì la Terra provocando secondo alcune ipotesi l’estinzione del 75 per cento delle specie animali e vegetali ma anche nuove occasioni per altre specie, tra cui a quanto pare la nostra. L’installazione rende semplicemente e magnificamente l’idea e invita a molte riflessioni, non appena avrai capito la metafora.
Poco più avanti questo gioco incessante sul doppio a contrasto addirittura si sdoppia tra l’ambiente espositivo interno e la facciata esterna dell’Hangar. Fuori Steve McQueen racconta scene di vita quotidiana a Grenada, l’isola-Stato dei Caraibi dove sono nati i suoi genitori: si parte dall’alba sul mare, e poi pescatori in spiaggia, ragazzi che tornano da scuola... La ripresa è lenta, il finale al tramonto addirittura statico. Quotidianità che in sé sembra voler rendere giustizia a un tragico episodio storico del 1651, quando un gruppo di nativi piuttosto che arrendersi agli occupanti francesi sacrificarono la loro vita lanciandosi nel vuoto dal punto più alto dell’isola. Ed è nel video proiettato in loop sotto la Navata che questo sacrificio viene simboleggiato con un cielo di nuvole bianche e soffici nel quale una figura umana a tratti precipita e in altri momenti sembra galleggiare, librarsi come in una sorta di resurrezione. L’opera si intitola Caribs’ leap, è del 2002 ed è un invito a riflettere sull’oppressione del colonialismo e sulle inevitabili e spesso tragiche forme di resistenza che ne conseguono.
E poi si chiude con il sesto video, che è il mio preferito, per quanto i miei gusti possano risultare di tuo interesse. Ogni mezz’ora circa in una sala separata dal resto del percorso McQueen ti costringere a spalancare le pupille, ti prende per le orecchie e ti conduce nella profondità di una miniera d’oro – quella di TauTona in Sudafrica - con un film girato nel 2002 in Super 8 poi digitalizzato. La discesa è lunga tre chilometri, il montacarichi che porta gli operai laggiù scatena un frastuono assordante. È buio, molto buio, squarci di luce mostrano solo ogni tanto porzioni dei volti dei minatori, griglie ondulate, pareti rocciose che scorrono. Poi di colpo silenzio assoluto, non si sente nemmeno il suono della pellicola che scorre, perché in realtà la pellicola non c’è più. Eppure la si percepisce nel suo piccolissimo formato e nella grana grossa che impasta i contorni delle immagini, come se fosse polvere di roccia. Irrompe con un boato un martello pneumatico che spacca la roccia aurifera scintillante, acqua che scorre a pressione, acqua che scorre per dislivello. Frastuono e ancora silenzio improvviso. Ecco lo sguardo perplesso di un operaio con un termometro in bocca. Poi schermo nero e di colpo schermo bianco, silenzio. Scatta un allarme rosso in una sala dove un gruppo di minatori è sottoposto a una prova sotto sforzo collettiva: su e giù da un gradino tutti insieme con un asciugamano intorno alla vita e il corpo che gronda sudore. Il ritmo si fa più serrato, il suono dell’allarme si moltiplica all’infinito creando un infermo audio e non vedi l’ora che finisca
E infatti finisce, silenzio, buio... Se non riuscivi a immaginare che cosa succeda nel fondo di una miniera, beh ora lo sai, lo vedi e lo senti. Ventiquattro minuti abbondanti di proiezione, in sala tutti zitti e a bocca aperta dopo il viaggio dentro questa “Western Deep” che toglie il fiato.
È finita (purtroppo), si esce. Ma prima ti attende un’altra meraviglia: i Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer, opera permanente e grandiosa concepita dall’artista tedesco proprio per l’Hangar Bicocca nel 2004. Una conclusione che lascia il segno... Però magari te la racconto un’altra volta.
E tutto questo è gratis, compresa la mostra di Anicka Yi, Metaspore, che fa da
preambolo a Sunshine State. Basta prenotare l’ingresso a questo
indirizzo:
https://pirellihangarbicocca.org/orari-e-come-raggiungerci/.