TRAUMA CODE - UNA SERIE “MEDICAL” CHE PARLA COREANO
LA FRASE – “Per quanto tempo i soldi continueranno a giustificare le morti inutili dei pazienti?”
Viene dalla Corea l’ultima serie televisiva ambientata nella sala operatoria di un ospedale. Fino ad ora — dal dottor Kildare a E.R. Medici in prima linea, dal Dr. House a Grey’s anatomy a Scrubs, The Resident e Good Doctor, ai nostrani Doc o Dottoressa Giò — le telecamere ci avevano raccontato tutto della sanità occidentale. Vita, morte e miracoli. Indugiando spesso e volentieri sui rapporti sentimentali che nascono e naufragano in corsia.
Con “The Trauma Code — Il turno degli eroi” lo sguardo si allarga sul lontano Oriente. E si scopre che, come in tutto il mondo, il problema più difficile è quello di far quadrare i conti. E, spesso, i bilanci non vanno d’accordo con l’obiettivo di salvare le vite.
Il titolo di Netflix è piuttosto enfatico. Gli eroi la fanno da protagonisti anche nella versione inglese: “The Trauma Code Heroes on Call”. In coreano suona così: “Jung-jeung-eui-sang-seu-teo”. Qualcosa di eroico, in effetti, c’è. Qualcuno potrebbe identificarlo nella figura del protagonista, Baek Gang-hyeok (di qui in avanti, semplicemente Baek): efficace chirurgo, si è specializzato in traumi ed emergenze in zone di guerra, dall’Afghanistan al Medio Oriente, al Sudan del Sud. È capace di intervenire in qualsiasi situazione, affrontando ogni genere di ferite che mettano in pericolo di vita i suoi pazienti.
Un bel giorno capita nell’ospedale universitario di Seoul. Lì è stato indirizzato dalla ministra della Sanità e del Welfare, con un compito preciso, che si rivelerà davvero eroico: attivare un centro traumatologico efficiente, in grado di salvare vite umane. Fin da subito si capisce che il nuovo fronte sarà per Baek molto più impegnativo di quelli frequentati sotto le bombe dei vari focolai di guerra sparsi per il mondo. Il chirurgo ha dalla sua un’arma straordinaria, oltre all’abilità e competenza professionale: un carattere perfido che farebbe impallidire persino il dottor House.
Per lui non ci sono ostacoli. Se l’obiettivo è quello di strappare alla morte qualcuno, è disposto a tutto. Sia a scontrarsi con la burocrazia ospedaliera che gli nega qualsiasi risorsa, sia a intervenire là dove chiunque si arrenderebbe. Lo si vede a bordo di un elicottero trapanare un cranio con martello e scalpello, gli unici attrezzi disponibili in quel momento. Oppure rappezzare con un guanto di gomma il cuore lesionato della figlia del primario proctologo, fino a quel momento suo acerrimo antagonista. Sia il paziente curato in elicottero, sia la ragazza si salveranno grazie alla prontezza e abilità di Baek, ovvio.
Grande assente negli otto episodi, l’amore, più o meno contrastato, che invece è un must in quasi tutte le serie tv ambientate negli ospedali dell’Occidente. Qui l’aspetto umano è invece legato al rapporto che il chirurgo riesce a costruire con i giovani. Due in particolare: Yang Jae Won, uno specializzando che diventerà il suo braccio destro ed erede. Lo tratterà malissimo, rifilandogli soprannomi irriferibili, fino a quando non lo avrà trasformato in un chirurgo fatto e finito. L’altra è una simpatica infermiera, molto sveglia, con cui entrerà in sintonia solo dopo uno scontro tanto violento da meritarle il soprannome di “Gangster”. Il trio sarà tanto compatto da trasformare l’ospedale in un centro di prima grandezza. Impresa molto complessa, trattandosi di sgretolare le resistenze di una direzione ospedaliera incrostata di burocrazia e rendite di posizione molto radicate.
Si parla della Corea del Sud, ma dietro quei contrasti si intravvede una realtà a tratti molto familiare anche dalle nostre parti.