“M – IL FIGLIO DEL SECOLO”
LA FRASE – “Guardatevi attorno. Siamo ancora tra voi.”
Gli occhi spiritati. Puntati verso lo spettatore, nel tentativo di irretirlo, sedurlo, conquistarlo. Quelli sono gli occhi dell’attore Luca Martinelli, nei panni di Benito Mussolini, nella serie “M – Il figlio del secolo”, dal 10 gennaio su Sky e in streaming su Now. Un’apertura d’anno senza eguali, sia per la qualità della serie, sia per la preoccupante sensazione di déjà vu che quella storia sollecita, a un Paese di corta memoria come il nostro.
Annunciata da un poderoso e diffuso battage giornalistico, la ricostruzione dei primi passi del fascismo ha tutte le caratteristiche per imporsi all’attenzione del grande pubblico. La storia muove dalla fondazione dei primi Fasci di combattimento del 1919, al drammatico discorso alla Camera con cui Mussolini rivendicò la responsabilità dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Era il 3 gennaio del 1925. Da allora è passato giusto un secolo.
Chi l’abbia letto, sa che il Mussolini raccontato da Scurati è quello che vien fuori dalle carte, dai documenti, dai discorsi. Né più né meno. Spogliato di qualsiasi elemento pregiudiziale. E già così emerge in tutta la sua tragicità. Qui l’operazione degli sceneggiatori, Stefano Bises e Davide Serino, almeno per il tratto in cui sono stati accompagnati dallo stesso Scurati, è più o meno la stessa. Fino a quando la regia di Joe Wright non aggiunge del suo. E la mano di Wright, cui si deve il formidabile “L’ora più buia” (2017) si sente, eccome. Nata come serie televisiva, “M” si sviluppa su un piano prevalentemente cinematografico. Prevale un umorismo nero, senza fronzoli. A volte urtante. Il linguaggio delle immagini è esaltato dalla colonna sonora di Tom Rowland, dei Chemical Brothers, con note insistite che esaltano il futurismo dilagante, le atmosfere iniziali, che richiamano la Berlino dei cabaret.
Poi è tutto un crescendo, in cui a volte si supera la barriera del tempo. Si arriva a un “Make Italia great again” improbabile per i tempi. Improbabile ma del tutto lecito, visti i nostri di tempi. Più che una licenza registica, è un’esplicita scelta espressiva. Chi vuol intendere, intenda. Dice Wright, in più di una intervista: “Non credo che la serie convincerà mai un fascista ad abbandonare il fascismo. Ma non volevo predicare ai convertiti. Volevo parlare agli indecisi, sperando di incoraggiarli a pensarci di più e a non lasciarsi sedurre dalla politica della paura”.
Che il tentativo sia riuscito lo dirà soltanto il pubblico. Destinato, molto probabilmente, a dividersi. Come succede su ogni cosa, ormai da tempo e sempre di più, grazie al venir meno di una politica prevalentemente incline a parlare un linguaggio identitario. Quanto sia distante “M” di Wright da quello di Scurati lo ha fatto capire lo stesso scrittore. Arrivato alla quarta puntata, ha scritto a Bises e Serino: “Scusate, ma da qui in avanti non vi seguo più”. Nessuna rottura, ma – ha raccontato al Venerdì di Repubblica – “ho continuato a collaborare alla stesura, anche perché dalla quinta puntata la serie ha preso decisamente un’altra direzione. Mi spaventava il registro comico, che rispondeva a una scelta stilistica del regista. Operazione che alla fine gli è riuscita magnificamente, proprio perché è riuscito a mantenere l’equilibrio tra comico e tragico. Questa mi sembra un’opera cinematografica di grande potenza”.
Sul filo dell’equilibrio si muove con grande bravura soprattutto Luca Martinelli. Come il Frank Underwood di Kevin Spacey in House of Cards, il suo Mussolini parla a noi. Direttamente. In modo sfrontato, provocatorio, suadente, ammiccante. Imperioso. Grottesco. Sempre con gli occhi fissi nei nostri. Prova assai difficile quella dell’attore italiano, dopo che Mussolini è stato interpretato, negli anni, da attori come Ros Steiger (“Mussolini ultimo atto” di Carlo Lizzani), Mario Adorf (“Il delitto Matteotti” di Florestano Vancini), Bob Hoskins (“Io e il Duce”), Claude Brasseur (“Edda”), Claudio Spadaro (“Un tè con Mussolini” di Franco Zeffirelli, e altri tre film), Antonio Banderas (“Il giovane Mussolini) e Filippo Timi (“Vincere” di Marco Bellocchio).
L’obiettivo è quello che Wright e Martinelli hanno spiegato: “Fin dall’inizio ci siamo posti l’obiettivo di ritrarre il Duce come un essere umano, senza cedere alla tentazione di demonizzarlo. Abbiamo deciso di eliminare etichette come ‘cattivo’ o ‘mostro’, perché il rischio sarebbe stato quello di creare una distanza tra noi e lui, una comoda estraneità che ci avrebbe esonerato dalle nostre colpe”.
Il cast, oltre a Martinelli, vede Barbara Chichiarelli (“Suburra – La serie”) nei panni di Margherita Sarfatti; Benedetta Cimatti (“Tina Anselmi – Una vita per la democrazia”) in quelli di Donna Rachele; Maurizio Lombardi (“The Young Pope”, “Ripley”) nei panni di Emilio De Bono; Gaetano Bruno ( “Il cacciatore”, “Doc – Nelle tue mani”) in quelli di Giacomo Matteotti; Paolo Pierobon (“Esterno notte”, “1994”) è Gabriele D’Annunzio.
“M – Il figlio del secolo” si candida a tenere banco per i prossimi decenni. L’ambizione dichiarata del regista Wright è chiara: “Non ho nulla da insegnare agli italiani sulla loro storia. Tutto ciò che posso fare è metterli davanti a uno specchio”. I tempi favoriscono il suo disegno. Come, ormai cent’anni fa, il vocabolario della politica si inchiodò per un ventennio sulla lettera “M”, in Italia di nuovo pare incepparsi sulla stessa lettera. Come in America, del resto: “M” come Musk. L’amico della Meloni.