BODIES
(foto da Netflix) |
Tendenzialmente, ogni sera, davanti alla tele, si svolge una piccola lotta. Il beneamato, per natura accomodante, può essere recalcitrante come un mulo, e prima di fargli accettare una qualsiasi Serie televisiva, e davvero non importa il genere ― anche se abbiamo in comune il disinteresse per gli Horror e i Fantasy ― bisogna lottare strenuamente. Lui è tipo da film. Anche quegli inutili, noiosissimi, film al testosterone dai dialoghi inesistenti, purché la trama si svolga con una certa linearità. E soprattutto nella stessa serata. Le Serie, invece, sconcertano lui quanto attraggono me per gli stessi opposti motivi.
Io amo poter rivedere quei personaggi che ho lasciato la sera prima, poter contare sul fatto che li ritroverò dopo cena, rannicchiata sul divano, che potrò seguirne gli amori, i dolori, gli intrighi, le vicissitudini. E come adoro le serie che diventano seriali, che durano anni. Diciamo che Bodies, dal 19 Ottobre su Netflix, con le sue otto puntate e le sue quattro linee temporali, si presentava difficile da fargliela digerire. Una storia spezzettata è già dura, quattro in contemporanea è stata ardua. Alla fine, l’ho preso col solito trucchetto: dai, vediamo la prima, poi, se proprio, l’abbandoniamo. A volte mantengo la parola.
Il racconto, preso dall’omonima graphic novel di Si Spencer (edita da Vertigo) si presentava intrigante. Un thriller distopico, una detective story condita con un pizzico di mistery, un filo di fantasy e un piccolo macabro tocco di horror: un unico omicidio, lo stesso cadavere, nella stessa posizione, ritrovato nudo come mamma l’ha fatto, con lo stesso tatuaggio sul polso, con la stessa orbita vuota, nello stesso luogo, un fatiscente vicoletto nel quartiere di Whitechapel, quello dello Squartatore, prima nel 1890 in una Londra di dickensiana memoria, poi straziata dalle bombe naziste, durante il Blitz nel 1941, poi nel 2023 in una città turbata da dimostrazioni neo-fasciste e infine, con un salto al quale, a quel punto, non si fa più caso, ci ritroviamo nel 2053.

Londra è diventata una metropoli rinata dalle ceneri di una distruzione che ha quasi totalmente decimato gli abitanti, ora governata e regolamentata da un apparentemente benevolente Comandante Supremo; sugli svettanti, post apocalittici edifici torreggia l’insegna, KYAL che poi è l’acronimo di Know You Are Loved, tradotto in un Sappi Che Sei Amato/a, che sarà ricorrente, ma non illuminante, per capire il senso di quell’acronimo, a meno che non si guardi Bodies in originale, il che forse è consigliabile.
Da subito si capisce però che l’amorevole saluto può nascondere una tutt’altro che amorevole fregatura, fino ad arrivare a essere un viatico terminale.
E’ dura non spoilerare.
Basti dire che il caso va oltre il semplice omicidio. E che è in gioco la salvezza dell’Ordine Costituito e della Gran Bretagna.
Ogni epoca ha perciò il suo detective impegnato a risolvere il caso. Che non è quello che sembra.
A guardarli in retrospettiva ci si accorge che ogni poliziotto appartiene a una minoranza: ci sono il gay, l’ebreo, la musulmana, la disabile, anche se relegare in quel ruolo la ritrovata Shira Haas,
favolosa piccola interprete di Unorthodox, qui al suo più minuscolo e emaciato, mi sembra offensivo e riduttivo. La Haas a mio avviso, è una forza della natura a prescindere; una che fa della sua
apparente
fragilità fisica, ha un corpicino di un bambino di 8 anni sotto un viso sensuale e intenso, la sua forza più dirompente.
Prima in ordine di apparizione la DC Shahara Hasan (Amaka Okafor), donna, di colore e musulmana, all’inseguimento di uno spaurito ragazzetto armato, l’unica che segue davvero il suo cuore e cerca di salvare il mondo senza rinunciare ai sentimenti. Stacco sul ligneo detective vittoriano, un uomo tutto d’un pezzo nel fisico e nel morale, il legnoso DI Hillinghead (Kyle Soller), tiene famiglia ma ha pulsioni erotiche che gli costeranno care; cambio di scena per incontrare DS Whiteman, un tenebroso dandy nato Weisseman (Jacob Fortune-Lloyd) che rifiuta il suo essere ebreo, ama il denaro e si arrabatta facendo porcate al soldo di oscuri manipolatori; e infine c’è la DI Iris Maplewood, piccola creatura con il Dovere come credo, sopra l’amore, sopra persino l’evidenza (la suddetta Shira Haas), fino al riscatto finale.
Una piccola spiegazione sulle sigle che precedono i loro nomi; dato che sono curiosa me le sono andate a cercare: DC sta per Detective Constable, il grado più basso, quello del poliziotto semplice; DS per Detective Sergeant e DI per Detective Inspector, il rango più alto.
Tra gli escamotage narrativi, l’uso dello Split Screen, quello che il regista Brian De Palma ci ha fatto conoscere, amare e talvolta sopportare in film come Dressed to Kill, Sisters e il memorabile Carrie, che qui ha il suo preciso perché, complice il cambio di luci e di toni, ci traghetta da un’epoca all’altra, in quello che poi si rivelerà essere uno stratificato loop temporale. Già Si Spencer, l’autore del fumetto, aveva suddiviso gli otto episodi in otto numeri, e scelto quattro disegnatori per differenziare ogni epoca. In quanto al loop, noi spettatori sgamati, ce ne siamo accorti subito, mentre i poveri protagonisti ne rimangono all’oscuro fino alla quarta puntata, dove Shahara mette insieme i pezzi del puzzle e scopre che il cadavere è uno e non solo trino, ma quadruplo. Poveri detective, vittime dei raggiri del Deus Ex Machina della macchinazione, tale Elias Mannis (l’ottimo Stephen Graham) che viaggia su e giù nel tempo e, per confonderci ulteriormente le idee, pure con altri nomi. Alla fine il povero Elias ti fa quasi pena, perché proprio non era stato amato. Da cui la fonte della fissa per KYAL, Know You Are Loved: Ricordati Che Sei Amato.
Tra i volti noti e meno noti, anche se tutti gli attori hanno un curriculum di rispetto, l’ormai irriconoscibile Greta Scacchi, nell’inquietante ruolo di The Lady; ci vuole tanta buona volontà per credere che sia lei l’affezionata figlia musicomane del mai dimenticato padre, il DI Hillinghead. Morto non di morte naturale. In quanto a Greta, imbolsita, e imborsita ― mi riferisco a quelle sue preponderanti borse sotto agli occhi ― piange il cuore ricordare che è stata la seducente e affascinante amante di Harrison Ford in Presunto Innocente. Non so chi sia il, o la, casting director, ma anche l’inquietante Gabriel Howell nei panni del giovane Elias, con quello sguardo spiritato e quelle occhiaie al carboncino, Stephen Graham non lo ricorda manco da lontano.
Ribadisco, non voglio spoilerare e nemmeno fare troppo quella della puzza sotto al naso. Per quella ci pensano altre recensioni, tipo quella di Wired, che mi sembra un po’ spocchiosa.
La trama non si può raccontare senza troppo svelare, tanti sono i meandri e i risvolti. Vi basti sapere due cose, primo bisogna avere pazienza perché la settima e ottava puntata si fanno più lineari ed è un sollievo. E secondo, cosa che potrebbe tornare utile, nel caso si creda in universi paralleli: se dal passato agisci sul futuro, il passato cambia. Il che mi sembra ovvio.
E con esso cambia tutto quello che ti sei sorbito per 8 puntate. Torna il tranquillo tran tran, come se niente fosse. Ecco, vi ho dato il finale di stagione. E dire che ero stata guardinga.
Mi è piaciuto? Direi godibile, perciò ben vedibile.