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30 gennaio 2022

Da Scilla a Torino:
quando il gommone era
un'auto vecchia

di Carlo de Nonno

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Nel 1973 Lucio Dalla decide di abbandonare i Bardotti, i Baldazzi, le Pallottino (e già c’era stato Sanremo e Quattro marzo…) e di aprirsi alla denuncia sociale e alla poesia scabra e immaginifica di Roberto Roversi, direttore di “L’Officina” e di “Rendiconti”, lontano mille miglia dal mondo e dalla industria della canzone. Non poteva sapere Lucio, ma da lì a poco lo avrebbe saputo, che quella collaborazione sarebbe stata in realtà una scazzottata durata tre album, con esiti altissimi e contraddittori, culminata in un volume di Savelli del 1977 e nel drammatico capitolo finale scritto da Dalla in cui in sostanza dice (e non mi risulta che sia mai stato fatto né prima né dopo): questo libro parla di me ma io lo rinnego perché non lo capisco. Era alle porte lo scarto violento di Com’è profondo il mare e dei testi scritti da solo, e, lontano lontano, Caruso e il successo interstellare.

Quando la puntina (scusate ma questi nascono vinili e tali restano) comincia a solcare Il giorno aveva cinque teste (primo round della scazzottata) e incontra Un’auto targata TO si capisce però che la bomba è ormai deflagrata. Perché lo scampanio iniziale diventa presto il rintocco macabro di una campana a morto e i dieci occhi e lo stesso destino di quei poveri emigrati nostrani (prima gli italiani, eh?), serrati in un’auto vecchia (che importa quale?) che era il gommone di allora, diventano i protagonisti di un viaggio, sì, ma in un’Italia sventrata dalle ruspe che l’hanno divorata, da Scilla a Torino, le nuove colonne d’Ercole della disperazione. E quello stesso sventramento diventa la speranza di sopravvivere per quei dieci occhi che viaggiano senza scafisti ma verso padroni che ugualmente li utilizzeranno come merce da sfruttare fino alla deperibilità.

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Illustrazione di Adriana Tessier

Viaggio puzzolente e amaro di una mamma disfatta, di un bambino che ha solo un pallone, di una ragazza venduta per ore al lavoro nei campi, di un ragazzo inferriate e catene, di un padre schedato e spiato.

Quasi palpabile è l’affanno del musicista Dalla, prima abituato a testi morbidi che si adattavano ai voli fino a quel momento inauditi della sua musica e del suo scat, nel rincorrere le immagini del testo: martella, parla, si distende, si inquieta torvo, partecipa, si estrania. Quasi una sofferenza: eh sì, se le sono date di santa ragione Dalla e Roversi, poco da dire.

Ma quando la famiglia arriva a Torino, e ci arrivano scassati e pesti anche la musica e il testo, per un attimo è magia. La musica ha una apertura melodica quasi verdiana e il testo, declamato in modo ieratico, la sposa senza violenza:


Questo luogo del cielo è chiamato Torino

Lunghi e larghi i viali,

splendidi monti di neve

sul cristallo verde del Valentino

illuminate tutte le sponde del Po


perché a un certo punto un poco di speranza ci deve pure essere da qualche parte. Anche se breve, ma proprio breve perché i terroni sono condannati a costruire, per gli altri, appartamenti da 50 milioni (vabbè la conversione in euro fatevela voi, e gli adeguamenti e i calcoli della svalutazione…).

Sono fatti di ieri?

Resta la Torino dei cortili sterrati e senza sole e quell’unico spunto melodico (ma tanto tanto dalliano) che serpeggia in tutta la canzone e che diventa una nenia enigmatica che dice tutto.

E niente.



Testo della Canzone

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