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20 maggio 2021

A Formigine,
a Formigine!

di Carlo de Nonno

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Ma che volete da me, io non mi ricordo niente… (dissolvenza).

E così la Cooperativa Teatrale “Il Carro” (forse ancora I Dodici Pozzi ma mo’ non mi ricordo …) di Castellammare apprese dalla bocca di Annibale Ruccello di una trasferta lontana e inusuale per i giovani entusiasti che eravamo allora. In quel periodo (fine anni Settanta… inizio Ottanta, ragazzi io non mi ricordo più niente) rappresentavamo L’Osteria del Melograno, scritto da Annibale con Lello Guida, con le musiche mie e con la Cooperativa (dove davvero tutti facevano tutto) al gran completo.

E ci organizzammo: saltò fuori che qualcuno conosceva un privato (compagno Autista) che aveva un pullman, dove potevamo metterci noi, le scene, le luci, gli strumenti. Non mi ricordo quanto costò, se rientravamo nel cachet, se c’era un cachet… (comunque vitto e alloggio sì, ce li davano).

C’era solo la voglia di andare… lontano. A Formigine… A Formigine!!

Che poi Formigine aveva ed ha un grande castello del Trecento, nel cui parco si faceva il Festival, noi eravamo tutti compagni, l’Emilia-Romagna rossa, l’emozione di andarsi ad esibire “fore regno”, insomma ci cominciammo a gasare manco fosse “A Mosca... a Mosca…”.

Venne il giorno e partimmo alle 8 di mattina tra sventolare di fazzoletti e piccola folla di amici parenti e conoscenti che veniva a salutare i teatranti scritturati, partimmo da Castellammare per raggiungere la vicina S.Antonio Abate e il teatro Dehoniano dove provavamo. Lì c’era l’appuntamento con il pullman e con l’avventura, in serata a Formigine, il giorno dopo spettacolo!

Canti goliardici, scherzi, risate, eccitazione.

Canti goliardici, scherzi, eccitazione.

Canti goliardici, eccitazione.

Canti goliardici.

Poi più nulla: si era fatta l’una e il muso del pullman non aveva ancora svoltato il cancello del Teatro.

Con chissà quale tam-tam (ma quali telefonini?) venimmo a sapere (ma non lo so se mi ricordo bene…) che il compagno Autista aveva accettato il prezzolato ingaggio di un gruppo per una gita in costiera sorrentina e che autonomamente aveva deciso di rimandare l’appuntamento al pomeriggio (a che ora? Boh!?) e partire nella sera/notte.

Ora io non posso giurare sul politically correct dei nostri pensieri parole e opere nei confronti del compagno Autista, ma a nessuno venne in mente di fare altro che rassegnarsi ed aspettare, sia pure col morale in caduta libera. Finalmente, verso le 19, il muso del pullman svoltò il cancello del Teatro (ahò, gli impegni sono impegni) e forse sarebbe stato meglio se fosse entrato in retromarcia perché la prima cosa che vedemmo, prima ancora del fatto che era antelucano e parecchio malandato, fu il buco nella griglia. Uè, che volete, non me lo ricordo se ce l’aveva da sempre o se se l’era fatto nel tour costiero della mattina, so solo che da quel buco arrivava sulle ginocchia del compagno Autista una sferzata d’aria gelida, poco attutita da un pezzo di cartone appiccicato alla allonsanfàn. E una cosa mi ricordo: che il compagno Autista era stremato dal sonno perché anche la notte prima era stato in giro col suo mezzo. Al punto da chiedere a noi a turno di stargli vicino durante il viaggio, preferibilmente ragazze, e “dargli a parlare”, se no si addormentava.

Comunque muss es sein, es muss sein. A Formigine!


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Illustrazione di Adriana Tessier

Adesso un’altra cosa me la ricordo: nel cuore della notte, abbracciato alla mia compagna, con la quale già pregustavamo la notte dopo in albergo (interesse privato in un’epoca in cui le cose non erano così tanto facili, almeno per noi) finalmente soli…, vedo tra le palpebre il cartello di una uscita autostradale che portava verso l’Abruzzo!

Io non lo so come. Io non lo so perché la ragazza di turno non era riuscita a dissuaderlo, so solo che il compagno Autista si era messo in testa che dopo Roma, per raggiungere l’Emilia, bisognasse passare per l’Abruzzo. Come contraddirlo? Questo misunderstanding geografico (che i casellanti ancora si tramandano nelle notti di plenilunio) ci costò una deviazione di parecchi chilometri e un aggravio di altre due ore sulla tabella di marcia.

Sta di fatto che quel dio che si distrasse per Annibale qualche anno dopo, quella volta fu vigile e benigno e il mattino seguente, com’è come non è, arrivammo a Formigine.

Per la verità, oltre al castello non è che ci fosse molto altro, ma insomma il posto era bello, il peggio sembrava essere passato e noi eravamo contenti.

Vabbè sì, dopo il massacro di quella notte venimmo presi in carico dal matto del villaggio che si offrì di scortarci al castello e ci portò invece da tutt’altra parte, allungando il tormento di un’altra oretta, ma cosa volete che sia per chi voleva raggiungere l’Emilia da Roma passando per l’Abruzzo?

Vabbè sì, l’albergo era in realtà una scuola riattata a ostello o ad orfanotrofio chi si ricorda…, con brande e coperte militari, il che annacquava di molto la nostra aspettativa romantica.

E d’altra parte, non erano forse mio padre e mia madre quelli che avevo intravisto in una strada e che erano venuti a farci una sorpresa in treno?

Con l’ego spropositato di tutti i teatranti (che non varia dall’infimo al divo) cominciammo a cercare i manifesti per la città. E li trovammo i manifesti. Dicevano: L’Osteria del Melograno, commedia napoletana. Scoprimmo così che a Formigine c’era una nutrita comunità napoletana, che lavorava nell’ambito delle industrie delle piastrelle, assetata di teatro napoletano.

Cioè, per loro, di risate.

Ora l’Arci mica se n’era fregata più di tanto del fatto che L’Osteria del Melograno fosse un elegante collage di miti, tradizioni, fiabe, incentrati su ancestralità materne, il cibo, la morte…. C’erano i napoletani, volevano il teatro napoletano, c’eravamo noi, c’era il buco da riempire. Punto (schede tecniche? Note di regia? E vabbè…).

E così, dopo aver montato le scene, puntato le luci, scoperto che i camerini non bastavano e che il pullman doveva in parte supplirvi, accordato gli strumenti, lo spettacolo cominciò. E, dato che si doveva ridere, si rise. Si rise alla tragica fiaba di Miezuculillo, si rise ai casi edipici di Sciocà, si rise all’omicidio rituale del monaco, si rise al duetto d’amore del venditore di spille e Catarinella, si rise alla scena finale con la Morte che invita lo Sposo all’ultimo ballo.

Si rise e si applaudì. Perché eravamo bravi, sì.

E perché c’era scritto: commedia napoletana.

Il giorno dopo, perché della notte non mette conto parlare, ritorno nel sole, con il compagno Autista ritemprato da una colazione a base di peperoni e che già pensava a come inzepparsi le giornate di lavoro, noi tutti che non eravamo ben sicuri di cosa fosse accaduto, io e la mia compagna neanche tanto abbracciati perché al ritorno mamma e papà si erano imbarcati sul nostro pullman, a cui ormai volevamo bene, Annibale che intonava a squarciagola: “Noi t’adoriamo o Vergine….”

Io non mi ricordo più niente…(dissolvenza)

E davvero non so più cosa ho detto di “davvero vero”, di immaginato, di alterato dal tempo trascorso, non so se gli altri (tranne alcuni, per forza di cose) potrebbero sicuramente narrare dal loro punto di vista in tutt’altro modo….e forse con più esattezza. Una cosa so, di sicuro.

Rientrando un momento nel pullman, poco prima dell’inizio per prendere non so che e con un po’ di febbre addosso che allora non faceva paura, la radio (perché c’era una radio) era accesa e dalla radio come per miracolo si sentì Battisti:

Prendila così… / non dobbiamo farne un dramma….

E come infatti, così fu!

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